Note di critica tratte dal volume:
“Alfiero Nena, l’ombra e la grazia”
a cura di L.Bortolatto. Ed.Gutenberg. Roma.
“Nella densa materia tragica del Cristo l’artista fa vibrare a squarci una nuova luce, quasi un bisogno di redenzione rappresentando anche violentemente la ferocia dell’uomo e, per contrasto, il suo riso e la sua dolcezza, il grido, il canto.
Con sguardo critico rivolto allo stile e al contenuto vuol proporre la visione dell’umanità in un rapporto di forze. Alla concezione tenebrosa con gli orrori, il sangue, alla storia vista come il dominio del destino, all’ombra e alla notte sostituisce un canto di grande socialità “posso portare le tue ferite Signore? Sa amare giustamente solo chi muore di intenso amore”.
La sanguinosa attualità è tutta nella materia squarciata, sconvolta da fratture di spazio.
Immobile ma percorsa da venti e barbagli la natura, che per Nena non circonda anche la morte delle dolci illusioni della vita, e pur ostile, spinosa e grave accompagna il Cristo, improvvisamente sparisce…” Luigina. Bortolatto.
Questo Cristo è la rappresentazione solo come umana sofferenza, come cruda, realistica espressione del dolore, contemplato (o autocontemplato) con terrena rassegnazione. Con questa scultura Alfiero Nena sembra riprendere fedelmente i canoni dell’aspra tradizione romanica sulla quale già si sono innestati i valori espressivi-espressionistici gotici e pre-rinascimentali.
Qui il Cristo non è morto, è un lucido, consapevole uomo, segnato dall’esperienza drammatica dell’esistenza. Il suo volto è plasmato dall’artista con vigore e naturalezza, senza inutili patetismi, anzi i suoi tratti sono evidenziati con tale ricchezza di finissimi dettagli che conferiscono al Figlio di Dio l’aspetto della regalità.
Anche il suo corpo, per quanto appartenente ad un uomo che ha sofferto moltissimo, è reso con un’asciutta armonia ed equilibrata proporzione, secondo il migliore classicismo italiano…”
Mario Ursino
Lux mundi di S. Maria del Popolo
IL CRISTO SENZA TEMPO DI ALFIERO NENA
di Mario Ursino
Quando Donatello, pieno di stupore davanti al Crocefisso di Brunelleschi (Firenze, Santa Maria Novella), pronunciò la famosa frase – riferita dal Vasari – “a te è conceduto fare i Cristi, ed a me i contadini” (1), definì teoricamente la distinzione tra classicismo umanistico e classicismo idealistico (2). Il Rinascimento infatti si snoda fondamentalmente attraverso queste due direzioni alla ricerca di perfetti equilibri formali o di viva rappresentazione della realtà. Il Brunelleschi , com’è noto, aveva scolpito il Crocefisso per sfida e per polemica con quello realizzato da Donatello (Firenze, Santa Croce), ma, in entrambi i casi – sia pure con notevoli differenze – viene rappresentato il Cristo morto, immagine del dolore e della sofferenza, così come era stata trasmessa da tutta la tradizione medioevale.
Solo verso l’ultimo trentennio del sec. XVI, per effetto della cultura controriformista, in clima di tardo manierismo, si affermano i canoni di una nuova rappresentazione di Cristo, che, secondo le parole del Vasari, “fu delicatissimo ed in tutte le sue parti il più perfetto uomo che nascesse mai”. (3).
Nella rappresentazione di Cristo che troviamo nelle opere di artisti quali Gerolamo Siciolante, Marcello Venusti, Padre Valeriano, Scipione Pulzone, è stata cancellata ogni traccia del dolore con il fine di “isolare – come ha scritto Federico Zeri – le sacre immagini dalla condizione figurativa comune a fatti estranei alla religiosità e alla spiritualità” (4). Così che la raffigurazione del Cristo di questi artisti diviene quasi irreale, e si pone al di là del tempo nel quale è stata realizzata, appunto “senza tempo”. (Si veda, ad esempio, del Siciolante la Crocefissione per la Cappella Massimo in S. Giovanni in Laterano, del Venusti il Noli me tangere in Santa Maria sopra Minerva, del Valeriano il Cristo inchiodato alla croce nella chiesa del Gesù, del Pulzone la Crocefissione in Santa Maria in Vallicella, dipinti nei quali il corpo del Cristo è completamente pacificato, levigato, mondato da ogni espressione di sofferenza e di morte attraverso la classicità idealizzata e resa mistica da questi autori).
In questo senso la scultura in bronzo e ferro Lux Mundi di Alfiero Nena, che si colloca nella basilica di S. Maria del Popolo in Roma, sembra riproporre un ideale classico della divinità e della fede nel nostro secolo per rafforzare l’iconografia del sacro su un tema(La crocefissione)particolarmente amato e indagato dall’artista. La scultura, per Nena, nasce da una “idea” che si sviluppa con il lavoro manuale, la sapienza artigianale (oggi negletta), con la fede e la tradizione storica e familiare avuta in eredità. I modelli dello scultore, da Giovanni Pisano ai contemporanei Greco, Messina, Manzù, Fabbri, Minguzzi, sono assunti d’istinto, come memoria inconscia di un passato dal quale è impossibile prescindere e che non può in alcun modo essere negato come invece è avvenuto in molte tendenze dell’arte contemporanea per effetto dell’ esasperato concettualismo delle avanguardie.
Alfiero Nena tuttavia, anche se solidamente legato alla tradizione, imprime nella materia trattata (di preferenza il ferro e il bronzo) il segno di una vigorosa quanto drammatica realtà con la quale l’artista deve lottare per plasmarla secondo la propria “idea” e l’esito morale, spirituale e religioso che si propone di raggiungere. Una Deposizione in ferro eseguita dall’artista nel 1971 attesta quanto la materia altamente erosa, da far pensare a taluni lavori di Medardo Rosso, possa contribuire alla estenuata drammatizzazione del soggetto sacro.
In Lux Mundi invece, l’artista ha immaginato il Cristo dopo il superamento del dramma umano, il Corpo ritrova il suo vigore nell’impeto della Resurrezione, rammentando però che essa è avvenuta a seguito delle sofferenze della Croce. Il Nena, trattando il bronzo, levigato e tornito con notevoli effetti di lumeggiature, ritiene altresì di evidenziare con punti di erosione appunto quelle sofferenze umane che Cristo ha subito e per le quali è morto, facendo coincidere nella sintesi della sua opera le famose parole di Tertulliano:”Non è forse realmente risorto perché realmente morto?”(5).
Le tracce del dolore qui assumono il significato della gioia della Resurrezione: nella Basilica agostiniana di Santa Maria del Popolo i simboli di questo evento religioso sono particolarmente vistosi e visibili – come cortesemente e convincentemente ci ricorda Padre Gioele, parroco della chiesa. Il numero otto (simbolo della Resurrezione) (6) ricorre costantemente nell’architettura e nelle decorazioni: La stella a otto punte racchiusa in un circolo è ripetute quattro volte all’ingresso delle quattro cappelle delle due navate laterali; quattro sono gli archi sopra i quattro pilastri delle semicolonne per ambo i lati della navata centrale, quattro volte è ripetuta la stella nel lato destro e nel lato sinistro del transetto che al centro è sormontato da una cupola ottagonale. E sotto la cupola, verso la parte sinistra del transetto di chi guarda l’altare, a pochi passi dalla Cappella Cerasi dove sono conservati due capolavori del Caravaggio, i Padri Agostiniani hanno collocato Lux Mundi di Alfiero Nena. La Resurrezione è sinonimo di luce e – secondo le parole di Agostino – “chi conosce quella luce conosce l’eternità” (7). Il volto del Cristo “brilla” come nel racconto di Matteo, e la sua storia è una storia di luce (8), e l’interpretazione scultorea del Nena tiene a mettere in rilievo proprio questo fondamentale aspetto della divinità. L’artista, sulla base di questo concetto, ha concepito l’opera, strutturandola in modo da suggerire la forza ascensionale del corpo esprimendo nelle fasce muscolari la tensione necessaria per sviluppare una adeguata torsione del busto. Il Cristo s’innalza lungo un’ideale spirale all’infinito, nella direzione del raggio centrale che lo sostiene.
In virtù di questa originale soluzione tecnica e linguistica, adottata dall’artista per rinnovare la tradizionale iconografia frontale del Crocefisso, il Cristo del Nena, ideale e “senza tempo”, può essere ammirato in tutte le sue parti.
Mario Ursino
NOTE
(1) Giorgio Vasari, Le Vite, com. da G. Milanesi, Firenze 1906 (ed. 1981, pag. 399).
(2) cfr. Giulio Carlo Argan, Brunelleschi, Milano 1952 (ed. 1978, pp.30-32);
Eugenio Battisti, L’Antirinascimento, Milano 1989, pp.44-45
(3) Vasari, op.cit., pag. 398
(4) Federico Zeri, Pittura e controriforma, Torino 1957 (II ed., pag. 115).
(5) Tertulliano, Apologia del Cristianesimo, Milano 1984, p. 367
(6) Alcuni autori cristiani antichi, volendo trovare una spiegazione simbolica del numero dei giorni, considerarono l’otto come un numero perfetto e la celebrazione di otto giorni come un’anticipazione della felicità eterna. Certi scrittori dissero che questa felicità era prefigurata nella gioia provata dall’apostolo S. Tommaso il quale, non avendo potuto vedere Cristo nella sua prima apparizione agli altri apostoli il giorno della Risurrezione, otto giorni dopo ebbe la soddisfazione di contemplare il Salvatore risorto. (da Dizionario Pratico d’informazione cattolica biblica e generale, The Catholic Press, Roma 1968, p.244).
(7) S. Agostino, Le Confessioni, Libro VII, X, Torino 1941, p.223.
(8) cfr. Alfredo Cattabiani, Luce e fuoco come forze divine, Il Tempo, 2 aprile 1988.
Alfiero Nena e l’arte del sacro
di Mario Ursino
In un raro scritto sull’arte sacra, Giorgio de Chirico, agli inizi degli anni Quaranta, ricordando le forti emozioni provate da ragazro di fronte alle madonne di Raffaello, del Correggio e di Murillo, affermava di aver compreso “la vera grandezza della pittura”. E da questa giovanile intuizione il maestro si convinse “che il mistero divino include nella sua grandiosità anche il mistero dell’arte”. Non sarebbe esagerato perciò dedume che tutta la vera arte sia sacra per definizione. Ma tale concetto, però, è troppo esteso, soprattutto se rapportato all’arte del nostro secolo, tutta permeata di scienza, gioco, psicoanalisi, esibizionismo comportamentale, vanificando dunque quel principio misterioso (e divino) che è l’autentica fonte di ispirazione.
Questa breve premessa mi sembra necessaria per introdurre un discorso sulla scultura sacra e monumentale di Alfiero Nena che da lunghissimi anni produce con una costanza e una determinazione (molto rara ai nostri giorni) pari alla fede in senso stretto, ma anche alla fiducia e alla tenacia con la quale egli tratta i forti materiali (dal ferro al bronzo, dal travertino alla creta) per ottenere quella espressiva forza drammatica che è il più sicuro tramite per la rappresentazione dell’idea della divinità, molto spesso obliata nell’indifferente laicismo della società contemporanea.
Scelta ardua, questa di Alfiero Nena, artista che avrebbe più significativamente potuto esprimersi nella mistica civiltà del Medio Evo, o anche nel fervore controriformato dell’età barocca, come un milite delle insegne e delle immagini religiose per antiche e nuove comunità della fede.
Per Nena l’atto creativo è dunque una sorta di meditazione e preghiera interiore che viene tradotta con la sua abilità tecnica di scultore in una rinnovata, attuale immagine della divinità secondo quei canoni estetici che abbiamo ereditato da tutta la tradizione di arte sacra (che poi in antico era l’arte tout court) prima che si instaurasse il filone borghese della rappresentazione laica divulgata dall’ arte fiamminga in Europa.
Alfiero Nena, perciò, tiene a precisare che la sua arte è rivolta essenzialmente al sacro, è un lavoro sofferto inteso a definire sempre nuovi modi per esaltare il divino e, se possibile, mostrame l’aspetto terreno nella sua luminosa bellezza. Nello sforro quindi di rendere attuale un’iconografia antica, la ricerca del Nena si incentra innanzi tutlo sul tema della Crocifissione a lui divenuto particolarmente caro. E non c’è dubbio che la crocifissione è l’immagine simbolo dell’umano dramma, metafora dell’esistenza che si giustifica solo attraverso un forte sentimento religioso che ne riscatta il dolore.
In effetti il tema della Crocifissione lo si può considerare alle origine della modernità, come sappiamo, perché l’arte italiana che si rinnova all’inizio del sec. XIII e conduce all’umanesimo giottesco e poi a quello rinascimentale, avviene proprio attraverso la rappresentazione nuova del Cristo, espressivo e sofferente come nelle croci dipinte di Giunta Pisano, del Maestro di San Francesco, e infine di Cimabue e di Giotto stesso. Questi artisti, insomma, con grande capacità inventiva, si liberarono della pesante eredità iconografica imposUi dallo schematismo dell’arte bizantina che imponeva la visione di un Cristo immobile e contratto in una fissità trascendente e disUinte.
Ecco perché uno dei temi maggiormente indagati e sviluppati dal Nena è proprio l’immagine del Cristo come “Lux Mundi”, da lui fortemente interiorizzato e portato al massimo delle sue capacità espressive ed esplosive nella bellissima opera di questo soggetto, commissionaUi e collocata in una delle più celebri basiliche romane, quale quella di Santa Maria del Popolo per volere dei Padri Agostiniani nel 1990. Quest’opera, irradiente luce e forza, si presenta nella sapiente e consapevole realizzazione del lavoro inteso anche come lavoro artigianale. “Qui l’artista ha immaginato il Cristo – come scrivevo in quell’anno – dopo il superamento del dramma umano; il corpo ritrova il suo vigore nell’impeto della Resurrezione, rammentando però che essa è avvenuta a seguito delle sofferenze della Croce. Il Nena, trattando il bronzo, levigato e tomito con notevoli effetti di lumeggiature, ritiene altresì di evidenziare con punti di erosione appunto quelle sofferenze umane che il Cristo ha subito e per le quali è morto, facendo coincidere nella sintesi della sua opera le famose parole di Tertulliano: “Non è forse realmente risorto perché realmente morto?”.
Il concetlo della “Resurrezione”, dunque, è insito e fondamentale nell’opera Lux Mundi del Nena, tanto da fargli concepire un nuovo tipo di Crocifissione che esprima la forza ascensionale del Corpo del Cristo, la cui muscolatura tesa ed evidente nella torsione del busto si innalza lungo un’ideale spirale verso l’infinito.
Già una precedente opera del Nena, Resurrezione, 1972, che si trova nel grande Auditorium dell’ Agostinianum, molto forte è la necessità per l’artista di esprimere la spinta verso l’alto in questa scultura tutta in ferro, dalla struttura prevalentemente astrattizzante, ma che non nasconde l’esile figura di un Cristo-eremita, lacero e mistico, dalle braccia martoriate, rese bene dal ferro scavato, scamito, eroso, nella invocazione della gloria divina riscattata dalla morte sulla croce. La Croce, che nella scultura del Nena non compare, nell’idea che la Croce è il Cristo stesso, con il suo corpo martoriato cui allude la materia ferrosa, abrasa, volutamente segnata, perforata e incisa dall’artista.
Diversa è, invece, la rappresentazione del Cristo solo come umana sofferenza, come cruda, realistica espressione del dolore, contemplato (o autocontemplato) con umanissima rassegnazione. E’ questo il caso del suggestivo Cristo. 197. Con questa scultura Alfiero Nena sembra riprendere fedelmente i canoni dell’ aspra tradizione romanica sulla quale già sono innastati i valori espressivi-espressionistici gotici e pre-rinascimentali. Qui il Cristo non è morto, è un lucido, consapevole uomo, segnato dall’esperienza drammatica dell’esistenza. Il suo volto è plasmato dall’artista con vigore e naturalezza, senza inutili patetismi, anzi i suoi tratti sono evidenziati con tale ricchezza di finissimi dettagli che conferiscono al Figlio di Dio l’aspetto della regalità. Anche il suo corpo, per quanto appartenente ad un uomo che ha sofferto moltissimo, è reso con un’asciutta armonia ed equilibrata proporzione, secondo il migliore classicismo italiano.
Un altro dei massimi esempi di scultura monumentale di Alfiro Nena è senza dubbio l’imponente, altissima figura della Vergine con bambino collocata alla fine degli anni Settanta sul Monte Tiberio a Capri. Si tratta, come è noto, della famosa Madonna del Soccorso che vigila sull’isola e i suoi marinai, realizzata da alfiero in sostituzione di quella precedente che i capresi avevano dedicato alla Vergine nel 1901, poi distrutta da un fulmine.
Nena ne dà subito una versione personalissima in bronzo, dal peso eccezionale di 11 quintali, tanto che dovette essere trasportata in elicottero su quel monte di Capri, di così difficile accesso, tra i ruderi di Villa Jovis.
La Madonna del Soccorso, nonostante la sua gravità, dovuta ad esigenze monumentali, appare tuttavia di aspetto sereno e gentile; il Nena ha voluto raffigurarla con lineamenti morbidissimi e regolari, il suo sguardo è profondo e l’aspressione lungimirante, in direzione dei suoi fedeli, ai quali è chiamata a rivolgere l’invocata assistenza. Anche il bambino è delineato con grade naturalezza, si sporge agilmente dal busto della Vergine ed è saldamente ancorato al petto della Madre che lo sorregge senza alcuna difficoltà. Il bimbo guarda dritto nella stessa direzione di Maria, consapevole del ruolo divino e del “soccorso” eventuale da compiere. Per esprimere questi gesti così caratterizzanti, il Nena non ha quindi rinunciato ad arricchire con preziosi particolari ogni dettaglio della possente scultura che certo non è destinata ad essere osservata da minime distanze. Infatti l’artista ha plasmato la chioma materna e del figlio con grande morbidezza e verità; le vesti sono fortemente incise a conferire al bronzo un maggiore effetto di pittoricismo nel giusto contrasto tra l’ombra e la forte luce battente. Infine, il regale e plissettato panneggio della veste della Vergine ha funzione di linea e di slancio per esaltare questa sontuosa maternità immersa pienamente nell’aria.
Più intima, più raccolta nel suo colloquio silenzioso madre- figlio, è, invece, la Beata Vergine dell’ Accoglienza. delicata terracotta di m. 2×1,60 che nel1991 è stata posta nella Chiesa di S. Bernadetta a Colli Aniene in Roma.
Alla profonda meditazione del motivo ispiratore, il Nena fa corrispondere nell’esecuzione di questa maternità, una struttura assai dinamica e avvolgente, quasi a voler conciliare talune eleganze gotiche dalla linea falcata, da rammentare una celebre opera del Pisanello nel Museo veronese di Castelvecchio, La Madonna della Quaglia, con l’essenzialità di un gesto creativo e vigoroso che convoglia il gruppo scultoreo della Vergine col bimbo nella ovalità di uno spazio ideale e simbolico: l’uovo come origine e l’uovo come misura rigorosa ed estetica, punto di raccordo tra diverse grandezze come nella famosa opera di Piero della Francesca nella Pala di Brera.
La scultura del Nena si esercita altresì sui temi della storia e dell’umanità in genere nei suoi aspetti fondamentali degli affetti e dei sentimenti; e, a questo proposito, merita di essere ricordata un’altra sua importante opera realizzata nelle Grotte Vaticane nel 1969; si tratta del Cancello in ferro per la: un armonioso e possente telaio racchiude i due battenti del cancello, all’interno di uno dei quali vi è lo scudo lituano con l’effige del cavallo in corsa e del cavaliere che brandisce la spada in attacco. Figura araldica carica di espressione che il Nena ha plasmato in tutto il suo vigore, in contrasto con il ritmico ricamo di geometrie, richiamandosi ad uno stile antichissimo e al prezioso barbarismo di cui è sempre connotata l’arte e l’artigianato nordeuropeo in genere, reinterpretato dal Nena con storico vigore.
Nella più recente delle opere destinate ai luoghi di culto, Alfiero Nena ha compediato, in eguale misura, l’idea del monumentalismo con il misticismo e il naturalismo. Il soggetto, in tal caso, non poteva essere che il Santo patrono d’Italia.
Frate Francesco – secondo il suo maggiore biografo, Tommaso da Celano (Vita prima Sancti Francisci, 1230) – “giunto a Bevagna, vide raccolti moltissimi uccelli d’ogni specie (…). Fattosi vicino, vedendo che lo attendevano, li salutò secondo il suo costume. Poi disse: ‘Fratelli miei uccelli, dovete lodare molto e sempre il vostro Creatore’. Si trattenne ancora con essi, e dopo il messaggio di pace li benedì invitandoli a riprendere il volo.
E’ questo l’atto nel quale Alfiero Nena ha voluto raffigurare il Santo, nel momento in cui il gesto di amore verso la natura (il gabbiano che dalla sua mano è già libero nell’aria) si trasforma in intima ed energica preghiera verso l’alto: “Laudate sie, mi signore, cum tucte le tue creature” (Il Cantico del Sole). Quanto forte fosse il sentimento della natura nel giovane Francesco ce lo dicono sempre i suoi biografi; egli infatti, poco più che ventenne, dopo aver rinunciato a tutti i suoi beni materiali, se ne andò solitario nella foresta del Subasio, cantando gioiosamente nel sole di primavera (la leggenda dice che in tale stagione se ne sente ancora l’eco).
E la singolarità di questo Santo-poeta consiste appunto nell’aver anticipato tanta insigne letteratura medioevale (Dante, Petrarca, Boccaccio) nella esaltazione delle opere del creato; solo che in lui il grande amore per la natura (fratello è il sole, il vento; sorella è l’acqua, la terra, la luna) era divenuto il tramite ascensionale per il divino. E di ciò ne rende stilisticamente bene l’idea Alfiero Nena quando spinge ad arco nello spazio la monumentale figura del Santo che è sita al centro della vasta esedra antistante la Chiesa di San Francesco a Sorrento, a pochi passi da una delle vedute più suggestive della Campania, da Procida al Vesuvio.
L’opera appare slanciarsi nell’aria con un moto fortissimo reso abilmente dallo scultore nel trattamento del panneggio del lacero saio eremitico che aderisce alla muscolatura del giovane Santo con pieghe classicheggianti di antico gusto arnolfiano.
E anche in questo San Francesco ritroviamo la straordinaria vitalità (tipica di ogni scultura di Nena) che si associa alla ripresa di ideali formali della migliore tradizione italiana, ovvero del rinnovamento linguistico introdotto appunto da Amolfo di Cambio (1245-1302) attraverso la notazione di particolari realistici e gesti caratterizzanti sull’ impianto tardo- antico; su codesta illustre tradizione Alfiero Nena innesta poi la sua profonda conoscenza dei materiali preferiti, come il ferro e il bronzo che egli rende duttili per meglio esaltare la propria concezione innovativa della raffigurazione del soggetto sacro, al quale intende conferire il massimo della espressività e della tensione creativa.
Mario Ursino