DEL FUOCO E DELL’AMORE

di Carmine Tavarone

Che cos’è un uomo? (Mah ‘enòsh) recita l’incipit dell’ottavo salmo, scoprendo l’abisso della solitudine umana.

Qùest-ce qùun homme dans l’infini? si domanda angosciosamente Pascal

è impastato di dolore e di speranza, sembrano rispondere le sculture di Alfiero Nena il cui percorso artistico si delinea come un’ininterrotta riflessione esistenziale sulle ossessioni in cui si dibatte l’uomo contemporaneo, prigioniero dei sentieri della notte. La scultura in bronzo raffigurante S. Francesco e realizzata per il Convento dei Frati Minori di Sorrento, rappresenta una tappa significativa di questo iter , forse anche un momento in cui il tormentato riflettere di Nena quasi si placa perchè l’artista possa umilmente accostarsi alla smisurata grandezza del Poverello d’Assisi. Lo scultore ne ha concepito la figura lasciandosi guidare dalle evoluzioni di una linea curva che, flettendosi, accoglie in sè la materia per dar vita ad un corpo in potente tensione spirituale.

Un corpo quasi librato verso l’alto e che, tuttavia, resta ancorato alla terra, primigenia culla di ogni dolore.

Un corpo che, per tensione interiore, perde di gravità, vince le resistenze della materia, incontra il volo degli uccelli che sfiorano i cieli.

Il Santo asssisiate è il simbolo della lotta dell’uomo per riedificare la propria casa sulle macerie della storia; è l’immagine che si oppone alla disperazione, è l’emblema della speranza.

Alfiero Nena non smette mai di interrogarsi sull’uomo, nucleo incandescente della sua poetica, e sul mistero della vita. Madre, L’Abbraccio, L’Attesa n.2, Maternità, sue sculture degli anni 70, sono figure che lentamente riemergono dalla memoria per riconquistare le ancestrali vestigia di idoli della fertilità.

Esse trovano, nel grave riposo delle forme conchiuse, il loro vigore plastico sostenuto da una sotterranea energia che si esplica negli abbracci di creature, frutto del loro amore per la vita.

Lo scultore trevigiano ammira Emilio Greco, suo maestro, e come lui pone la donna in un ruolo di assoluta centralità, inquietante nadir della vita.

Ma l’impalpabile eppur presente erotismo delle creazioni femminili del maestro, viene sottoposto ad un processo di sublimazione nelle immagini del discepolo, più affini alle icone sacre di quella civiltà contadina veneta, le cui radici Nena gelosamente custodisce.

Archetipo assoluto di vita organica, la donna di Alfiero Nena è la madre da cui tutto si genera e a cui tutto ritorna.

Solenni e dolcissime le teste, finemente impostate sul collo, i profili atraversati dall’ineffabile mistero della maternità, esse si aprono allo spazio sul progressivo stratificarsi dei volumi.

Monumentali eppure dimesse, ai limiti della fertilità, queste donne gravide, colte nel gesto di contemplare la propria perfezione creaturale o di presentare al mondo il frutto del loro ventre, sono immagini indimenticabili.

Nena sembra captare ogni vibrazione interiore dell’universo femminile, per plasmarla in un arcaico naturalismo che non ha nulla di leziosamente mimetico, ma è il segno profondo di una estenuata meditazione sulla lezione di Giacomo Manzù.

Alle origini della vita vi è però anche il dolore, forza che accompagna il cammino di ogni esistere.

Nena ne avverte il peso e, se da un lato ne argina l’inaudita assurdità evocando immagini materne dalla profondità della sua memoria, limbo estremo che salva e che preserva, dall’altro ne accetta l’ineliminabile e dilagante presenza.

L’immagine del Cristo piagato, rappreso nelle lacerazioni minerali del ferro, metallo che lo scultore predilige come elemento in cui la natura verifica le forze dell’assurdo, vive nella perenne storicità sacrificale.

Deposizione, Cristo, lo splendido Lux Mundi di S. Maria del Popolo, appaiono, a prima vista, dissonanti rispetto alle visioni ovoidali dei corpi di Attesa, Ballerina, Sogno, corpi chiusi nella oro distaccata e inviolabile perfezione.

Eppure le figure di Cristo, lacerate e straziate, ne sono, in realtà, l’aspetto inquieto, notturno, nevrotizzato.

Il Cristo di Nena è una scultura di irregolare bellezza dove le proporzioni dell’antico, accarezzate e delibate altrove, vengono volutamente superate e contraddette.

Il suo Crocifisso ha braccia e gambe vistosamente contratte nello sforzo del martirio, costole che divorano i residui di pelle, squarci aperti sul ventre.

L’oltranza espressiva di Nena rivela un potente coinvolgimento emotivo, ai limiti, talvolta, del compiacimento estetico, per gli aspetti più oscuri del barocco, per la figura del Cristo patiens legato alla pietà popolare e per quella grondante sangue e dolore di un Gaudenzio Ferrari.

Il Cristo di Nena è senza croce: si abbraccia allo spazio, lo ghermisce o sembra respingerlo, forse, per non esserne risucchiato o annullato.

Alfiero Nena è artista di segrete ambivalenze: lo si percepisce essenzialmente attratto dallo spazio onnivoro che precipita all’indietro, fino alle origini del dolore, lì dove il vuoto, sartrianamente inteso come l’essere stesso fagocita ogni forma di vita; lo si coglie scopertamente a combattere, quasi con ferocia, perchè l’amore respinga il niente, al di là dello strazio fisico e dell’ “horror vacui”.

Il S. Francesco si colloca, con la sua potenza evocativa, al punto di intersezione tra i disfacimenti dei Cristi “postumi” e le visioni di memoria delle “madri”.

Nella scultura dell’Assisiate Nena fonde (forse momentaneamente) le due anime della sua scissa identità di artista, per cogliere, nelle effigie del Santo, gli straordinari tratti di un uomo votato alla povertà e alla gioia che gli viene dal rifiuto dei meccanismi nullificanti delle società opulente.

L’artista ascolta Francesco ed è affascinato dalla sua esistenza vissuta, al di là del bene e del male, nella coincidenza assoluta tra parola e vita.

A Francesco, Alfiero Nena dedica quest’ultima fatica, canto che silenziosamente si scioglie alla speranza.

di Carmine Tavarone