Luigina Bortolatto

“Alfiero Nena scultore, l’ombra e la grazia” a cura di Luigina Bortolatto . Edizioni Progetto Gutenberg, Roma 1994

Luigina Bortolatto

L’OMBRA E LA GRAZIA

 

PRIMA PARTESECONDA PARTE – TERZA PARTEQUARTA PARTE

 

 

 

 

 

Prima parte

Mistica della materia

La Yourcenar ci racconta che Dag Hammarkjold, uomo di stato, aveva fatto collocare nella cappella del Palazzo delle Nazio¬ni Unite, a New York, una massa enorme di materiale di ferro allo stato geologico. La mancanza di memoria e l’incoscienza del blocco prima di qualsiasi uso, poneva l’ “avvincente” mistico della nostra epoca in condizione di assoluta serenità. (l)

Forse la stessa serenità investiva Nena giovinetto, quando si misurava con sbarre di ferro per inventare e portare alla luce cancelli, alari, ringhiere, pannelli, fino alla grande quercia del ’64, ritrovando la storia al di là dell’estetica.

Il ferro appariva a Nena la sostanza più durevole di fronte a una umanità sentita precaria, dopo le distruzioni della guerra, per come andava accelerando un processo di disintegrazione dello stesso mondo animale e vegetale.

Il ferro, oggetto puro, disponibile per operazioni inimmaginabili, possedeva inconsapevoli alfabeti. Nena inizialmente sgranava il suo definendo un mondo vegetale diretto, pur riducendolo a cifra. Con libertà e completa adesione emozionaIe trasformava in fatti vitali, non intellettualistici, le istanze di semplici committenze.

Gli eventuali riferimenti alla cultura materiale del passato, per approfondire le radici attraverso il contatto, ponevano in discussione l’immaginario con indicazione di soluzioni possibili.

Per germinazione, crescita spontanea, espansione della linea e dello spazio che nascono come elementi naturali, Nena proponeva le piante, l’animale, anche l’uomo in ritmi senza fine attraverso il ferro. Con necessità spirituale e psicologica, con la stessa espressione corale di componenti goticizzanti o art nouveau fino alla mimesi che anche altri artisti hanno scoperto per metamorfosi spontanea.

Immedesimati dal mondo naturale sono gli elementi vegetali, foglie, rami, fiori che Mazzucotelli spaziava simmetricamente nella rosta di Crocetta del Montello come nei cancelli trevisani di Villa Fabbro, senza dubbio noti a Nena (2). Ma questi erano carnosi e vellutati se paragonati alla duttilità, fatta di fibre e di linfa, (fiore e automobilina, mazzo di fiori, tronco fiorito) degli esili racemi, boccioli e petali di Nena, fino al più corposo tronco (1960) che precedono i messaggi allucinati che Marcello Mascherini avrebbe affidato ai fiori (1970) del suo Carso, paese di calcari e di ginepri perchè “abbia anche il dolore il suo silenzio” come scriveva Slataper. (3)

Nel primo decennio della sua attività Nena sembra inseguire le stagioni.

Nato nel 1933 era stato un bambino con il privilegio di un’ infanzia contadina. Durante la guerra giocava tra le rovine della sua città, Treviso. Ha ricordi adolescenti di pomeriggi assolati, con canto fisso di cicale, ombre degli alberi nel soffitto della stanza, mentre personaggi di pietra riposano sui tetti delle chiese, popolano i giardini e credono che tutto ciò che li circonda sia opera dei loro sogni.

Torna la primavera e torna l’autunno (cancello, Bologna 1950). Con simbologia d’obbligo (pianticella spezzata, Francia 1956) ma assoluta originalità di forme Nena si ispira alla natura non per imitarne gli aspetti bensì ripeterne la ricchezza inventiva. In questo florealismo le figure fitomorfe e zoomorfe mantengono un respiro naturale. Matrice impressionista hanno alcune figure antropomorfe: Cristo con vessillo, Angelo con tromba (1957, cimitero, Carbonera).

Nena non ripete l’immaginario di Rizzarda (4), si lascia piuttosto attrarre dalla stilizzazione dinamica del più anziano conterraneo Toni Benetton (5). I riferimenti ai ferri di celebri architetti da Olbrich a Gaudì, da Fichera a D’Aronco sono relativi alla considerazione del principio che “decorazione è bellezza”.

I motivi iconografici caratterizzanti le prime opere di Nena sono animali domestici e selvaggi, scene bucoliche, arature, con intonazione di equilibri a tempi larghi per dar senso a un fraseggiare mal secco o meccanico.

Cadenze compositive Decò possono ritrovarsi nei partiti ornamentali di opere commissionate successivamente. Il cancello della Cappella Lituana, (Città del Vaticano 1969), porta echi di Brandt, di Petrassi e altri (6).

Trattati a forgia, con sensibilità che va oltre gli esempi di Toni Benetton degli anni’ 50 (7), più che citazione accademica, sono portatori e lottatori. Con l’apparenza di forme astratte in strutture asciutte e lineari quali solidi geometrici elementari, accostati o sovrapposti legano le iconografie della figura umana con accentuata disinvoltura.

Nei motivi laici: la caccia (1976) o religiosi, figliol prodigo (1986) c’è un movimento d’amore che spinge nel regno dell’estasi, del fluido su cui Nena lavora con libertà che gli consente di esprimersi ironicamente quand’anche par accettare modelli di plastica etrusca e, più vicini, di Giacometti (dalle origini, 1974) o mentre guarda al mondo dello sport con il penetrante artificio retorico di lancio del giavellotto e atleta in corsa (1985; 1994).

È nell’anno ’64 che l’alfabeto di Nena cambia registro. Quando il processo di transfert, di concentrazione getta le basi di una poetica dell’immaginazione affettiva nella scoperta del simbolismo del Cristo (8).

L’utilizzo di questa immagine, riempita di contenuti intellettuali ed emotivi, lo preoccupa quanto il farsi delle forme e l’impiego del ferro. Tra l’uomo e il sacro è implicito un rito che ingloba la vita e l’oltrepassa. Qui forse inizia l’autentica avventura dell’estetica di Nena: mentre dialoga con Dio si concentra sull’immanenza nascosta nel fondo del ferro.

Questo elemento chimico con il quale lo scultore ama misurarsi mi ricorda il titolo di un racconto di Primo Levi (9) e la straordinaria figura di giovane uomo che lo scrittore abbina a questa materia, attraverso la memoria.

L’evocazione inizia con una voce “nuntio vobis gaudium magnum. Habemus ferrum” in “un silenzio affaccendato” (10). L’annuncio “sacrilego” (11) veniva da Sandro, descritto da Levi come penso vent’anni più tardi sarebbe stato Alfiero Nena per “qualcosa che maturava in lui, qualcosa che lo turbava perchè era insieme nuovo e antico”.

Nel ferro Nena sembra affondare all’ origine della lingua plastica con istinto aggressivo per investire l’idea dell’opera e la sua struttura. In ogni passo cerca di alternare il recitativo e la modulazione in modo commovente elaborando insieme indagine analitica e abbandono emozionale. In tal modo crea una forma- soggetto che può essere ricostituita con la purezza argentea del metallo bianco, lucente, percosso dal maglio e sviscerato dalla fiamma ossidrica.

La tematica della morte attraverso il Cristo non è la tematica del nulla, della dissoluzione e può essere espressa senza tristezza come in una Sonata di Beethoven.

Nelle variazioni dell’ ecce homo, nel “ritratto” di Cristo, ridotto volutamente al volto, la visione si concentra in una forma di interiore immobilità quasi per obbedire alla verità e alla natura. Le fisionomie diverse dell’ effimero e del provvisorio del ritratto sono rigorosamente concentrate e Nena non racconta soltanto un momento della vita dell’uomo-Dio (come sa fare per la capacità di cogliere nel modo più esatto la somiglianza dei suoi modelli) ma anche molto del suo passato, suggerendone le assenze.

Nel Cristo crocifisso Nena si confronta con la duplice tradi¬zione del Cristo triumphans e del Cristo dolens, ne stravolge gli schemi iconografici e contenutistici in funzione di un’esasperata tensione interpretativa, memore della violenza plastica delle croci dipinte senesi e pisane o dell’ inquieta grafia manieristica della crocifissione trevisana di lacopo da Bassano (12), dalla deposizione (1971), alla resurrezione (1972), al Cristo Gambassi Terme dello stesso anno, al grande ferro del crocifisso del 1975.

L’ostentata tragicità ottiene l’attenzione per audaci stilizzazioni di ricerca di espressione drammatica qualche volta accentuata manieraticamente: la positura del tronco rispetto agli arti superiori, a quelli inferiori, alla testa mai in asse, se non consideriamo la citata resurrezione con andamento frastagliato della struttura a piani ad angolo acuto, ottuso, quasi mai retto.

Nella densa materia tragica del Cristo l’artista fa vibrare a squarci una nuova luce, quasi un bisogno di redenzione rappresentando anche violentemente la ferocia dell’ uomo e, per contrasto, il suo riso e la sua dolcezza, il grido, il canto.

Con sguardo critico rivolto allo stile e al contenuto vuol proporre la visione dell’umanità in un rapporto di forze. Alla concezione tenebrosa con gli orrori, il sangue, alla storia vista come il dominio del destino, all’ombra e alla notte sostituisce un canto di grande socialità “posso portare le tue ferite Signore? sa amare giustamente solo chi muore di intenso amore”(13).

La sanguinosa attualità è tutta nella materia squarciata, sconvolta da fratture di spazio.

Immobile ma percorsa da venti e barbagli la natura, che per Nena non circonda anche la morte delle dolci illusioni della vita, e pur ostile, spinosa e grave accompagna il Cristo, improvvisamente sparisce.

Cristo, deposizione e resurrezione rappresentano momenti alternativi del percorso dell’autore. La vicinanza ne rileva e ne accentua, con stridore, il contrasto.

La croce permane in un momento geniale quando la scultura di Nena, come in altre occasioni, si fa azione narrata. Cristo in croce e Maria (1976) sviluppa un tema di poetica astrazione, l’adorazione della croce, in un’ interessata rappresentazione visiva costituita da una grande macchina all’ interno della scena che è il procedimento del rossiniano stabat Mater.

L’invenzione della raggiera intorno alla figura del crocifisso segna un passaggio, tipologico più che cronologico. Compare nel 1973 (Cristo Lux Mundi chiesa di Nostra Signora di Lourdes, Sorrento; 1990 chiesa di Santa Maria del Popolo, Roma; 1993 chiesa di Santa Maria del Carmelo, Terni) e non risponde unicamente all’ esigenza di ambientazione dell’opera ma, con la presenza di raggi allude all’atto di coinvolgimento e alla volontà. La luce, direzionale e penetrante, è manifestazione divina resa visibile: i raggi portano nello spazio la parola di Cristo (14).

Questa interpretazione della poetica dello scultore non nega tuttavia il mito futurista della definizione di spazio dinamico nella sua componente raggista. Il corpo di Cristo, crocifisso, inizialmente a braccia tese sull’ orizzonte, alla fine sollevate verso il cielo, è innalzato dalle tenebre alla luce.

Il gesto del nostro tempo è Cristo risorto, vestito, il gesto di un altro tempo è il crocifisso nudo. Gli oggetti della gloria: gli abiti, sono sullo stesso piano degli emblemi del dolore: i chiodi che fissano i piedi.

Lo scultore tragico cede all’uomo, al narratore della nostra epoca ricevendo luce e forza dalla materia e costruendo anche attraverso la digressione … allontanando l’osservatore dal tema principale o distraendolo con altre materie, provocando una emozionante attesa destinata ad acuire l’interesse per il ferro.

 


 

 

 

 

 

Seconda parte

Luigina Bortolatto

Ricostruzione del gesto

Per essere in grado di ricostruire il movimento completo, visibile e invisibile, del gesto di Nena sottoponiamo all’osservazione un gruppo di opere.

Il gesto ci appare come una linea fluente, senza stacchi, equivalente alla scrittura nel foglio dove il ductus della mano traccia lettere fatte anche dall’assenza del segno. Un procedimento, a metà strada fra la scrittura classica (lettere angolose e solitarie) e i risultati della scrittura a stampa o al computer (segni slegati).

Le immagini di Nena sembrano animazioni delle pagine dei manoscritti medievali, quasi morfologia presente nei grandi Messali, nelle Bibbie, volumi da studio inamovibili, ma anche nei Libri d’ore, maneggevoli codici personali. Questa grammatica in periodo gotico si esternò nelle decorazioni miniate sostituendo la grande parete dipinta del periodo romanico.

Bambino su altalena (bronzo 1976) ha lo stesso moto ondeggiante, contenuto e completo, della Badessa Claricia che oscilla attaccata alla lettera O trasformandola in Q di un salterio del 1200 (15). Del tutto assenti gli effetti drammatici di un’altra altalena, quella su cui Fragonard ritrae la marchesa di Crébillon, tra giochi di luce nel paesaggio, con introduzione di due elementi: il significato erotico, e il movimento rappresentato nel momento piùalto, quello dell’arresto. Ma la castità della scena perdurava ancora all’inizio del settecento. Watteau nel 1717, (in un particolare da I pastori), riprende di spalle una fanciulla in altalena, ferma. L’oscillazione non compromette l’innocenza dell’immagine.

Lettera da alfabeto figurato sembra un’ opera più recente di Nena: olocausto (1987 terracotta).

Il carattere mediterraneo dell’umano naturalismo nell’invenzione fantastica ricorda manufatti di botteghe nord italiane: il drago processionale di ferro dipinto che si conserva a San Giulio d’Orta, a cui probabilmente si rifà lo stesso animale di un Libro d’ore della Biblioteca civica di Bergamo (16).

Ma olocausto cede anche alla contorsione, alla durezza di tagli geometrici richiesti dal soggetto. Secchi, innaturali, artificiosi generano la stessa tensione di alfabeti nordici quattrocenteschi investendo il problema della forma e dalla rappresentezione, senza digressioni. Il gesto, vibrante, ricerca la causa del sacrificio e si traduce in dubbio: la natura umana è dominata, legata a sogni perversi da cause indipendenti dal suo volere o l’ingiustizia è scelta volontaria?

Nel bozzetto per monumento ai caduti (1981, plastilina) due figure fiancheggiano l’albero a scarni rami da cui scende una colomba con ramoscello d’ulivo. Nel parallelismo fra uccello, immagine del caduto e bambino si stabilisce una reciproca illuminazione per cui la forma guida a diversi strati di lettura.

Una complessa articolazione simbolica mette in movimento i protagonisti come se l’opera di Nena scorresse sugli stessi registri (17) degli scomparti delle porte bronzee del Duomo di Hildesheim (1015 c.) o delle formelle di Bonanno Pisano nella porta del Duomo di Monreale (1185).

Identica forza di suggestione poetica era espressa in alcune scene bucoliche precedenti (1961 ferro), nelle più vicine varianti del San Francesco (1990-1992, bronzo, ferro, creta) per la teatralità e l’artificio delle loro forme.

La probabilità estetica del commento dinamico svolto attraverso la linea traspariva nel Cristo sugli spini (1970, bronzo) dove l’incrocio delle gambe e l’estensione delle braccia, fino ai rami spigolosi e pungenti, proponeva tuttavia un controllo. Come se il Cristo, benchè Dio, ma uomo, si muovesse recitando la sua vita senza moti violenti, pregiudizievoli per la simmetria.

Se Focillon rileva nella scultura romanica il massimo del dinamismo e, per contrasto, dell’immobilità, considerando spartiacque tra mondo infernale e mondo divino la rappresentazione dell’uomo, Nena incomincia questa scala ascendente di movimenti ma anche di valori.

È quando nel personaggio Cristo si esprime un furore lineare, la domanda verso l’irraggiungibile, un girare e svincolarsi nel tentativo di dissoluzione formale, ininterrottamente, con cupe ombre intorno al corpo che affonda nel buio, figura di un altro mondo. Un lunghissimo ritmo fluviale che scorre, fino all’astrazione di due grandi sculture in ferro del 1971.

Intorno all’attesa di Davide (1993, bronzo) che riprende adolescente del 1972 si prova una strana sensazione. Cancellando i dettagli in una forma in moto veloce di questa figura di giovanetto proteso, seduto su un tronco, ci si trova di fronte una mobilissima linea a spirale.

Abituati a tipi di comunicazione quali cinema, televisione, segnaletica, sappiamo che il tempo di integrazione della informazione visiva ha un limite percettivo di 0,125 secondi. Su questa considerazione, per individuare il gesto che si forma, blocchiamo la nostra attenzione su un particolare: la benda, striscia sottile dorata che cinge la fronte e i capelli ricciuti del giovane. Un altro oggetto, il sasso, passa inosservato. Sulla benda, elemento minimale, Nena arresta la nostra percezione. Si rifiuta di semplificare, teso verso una visione storica nel tentativo di elaborare secoli di scultura dall’ auriga di Delfi all’eroe da Riace (18).

Atteggiamento che l’artista riserva a un bronzo del 1986, rivisitazione di un’ opera precedente (amanti, 1970) un eterno abbraccio per il quale io stessa ho suggerito il titolo Sigmund e Siglinde, memore di tre opere veneziane di Mariano Fortuny, ispirate da Wagner.

Le bende allacciano gli amanti in una sensuale trionfante mitologia affidata a più segni significanti: il gesto dell’ autore, l’immagine rappresentata, la struttura a spirale. Un tracciato di linee e di curve aderisce al movimento che Nena imprime all’azione drammatica di fame nel mondo (1987), lancio del giavellotto e atleta in corsa, quasi una concezione ornamentale da cui far sorgere le immagini. Torsione di corpi, profili e prospetti entro cui si inseriscono vibrazioni in uno spettacolo di armoniosa unità.

Il gesto di Nena, fatto di misura, di equilibrio, a volte carico fino allo spasimo con violenta caratterizzazione, esce dall’ ombra se pur con la dote dell’esagerazione.

 


 

 

 

 

Terza parte

Bestiario

L’opera che apre il corpus di Nena è un gallo, un ferro alto circa mezzo metro, anno 1950.

Quale spazio separa l’animale di Nena da quello celeberrimo di Mazzucotelli, amato e ripreso da Rizzarda?

Alla ricchezza di invenzione formale, feroce e raffinata insieme del lombardo, Nena contrappone una disarmante ispirazione naturalistica apparentemente priva di gusto metamorfico. Ma nel piviere dello stesso anno già prevale una diversa sollecitazione stilistica, di spontanea immediatezza espressiva.

Il cervo maschio, attributo di Diana cacciatrice nell’iconografia profana e con un crocifisso tra le corna di quella religiosa, è comunque un animale sacro che irrompe come un oracolo vivente nei temi dell’arte di Nena. Ora sembra provenire dalla visione di S. Eustachio di Pisanello trasfigurato in poetica apparizione (1975, ferro). Prima, trafitto (I 964, ferro) fuggiva tra le selve, arricchite da affascinanti notazioni naturalistiche, per nascondersi all’uomo più crudele della natura; più tardi colpito (1976, ferro) si ergeva, isolato l’elemento culminante nella rappresentazione del movimento, corretto dal punto di vista fisico ma anche da quello fisiologico e percettivo.

In questo modo l’evocazione violenta del moto investiva anche la morte trasformandola in lotta, vera emancipazione dal mito del pensiero.

Ancora Pisanello, ma anche il naturalismo dei particolari del gotico internazionale del celebre taccuino di Giovannino de Grassim aggiornano il gusto dell’indagine minuziosa di Nena sulle figure di animali, sino a gazzella (I993, gesso). L’occhio scopre in alto, tra le rovine del tempo, perverso e distruttore, le stelle, le nuvole, le foreste di una natura vincitrice.

C’è il cavallo acceso da fuoco vitale, crepitio avvampante segnato e scavato dall’ ombra della notte al giorno, quando si erge a simbolo di olocausto, teso a conquistare paradisi di struggente gaudio, immagine di libertà quando ricorda le inebrianti tauromachie di Cnosso.( 19) Le forme simboliche di Nena hanno percorsi sotterranei, si rianimano e rivivono nel suo pensiero, svelando un significato profondo altro nell’ evocazione di immagini remote.

Nena rifiuta la rappresentazione della realtà oggettiva e naturale. Blak (1979 , ferro) non è un cane, è il suo cane e se non attende metamorfosi sogna scenari e fantasmi di una vita trascorsa con il padrone.

Lo scultore non è attratto verso ciò che è debole, consumato dal dolore prossimo alla rovina. Perciò si affida alla figura di un animale per evocare la nobiltà di apparizioni luminose, per sorprendere quell’elemento eterno necessario a esprimere un’idea contemporanea di bello. Il messaggio pubblicitario della prorompente vitalità di Pino Silvestre ripropone a distanza di tempo l’immagine del bianco cavallo.

Sufficientemente mitizzati anche nei titoli libero, olocausto, verso la libertà i cavalli di Nena compaiono come simboli di salvezza in uno scenario di speranza. Figure insistenti assumono uno speciale rilievo: scattanti, agili, fieri, sono allegorie da interpretare in modo diverso dal significato apparente.

Su libero un ferro del 1968 Nena è intervenuto ben tre volte, a distanza, variando, in preda a raptus, la positura del cavallo che, prima accucciato, alla fine si solleva e balza nell’aria in gara con i rampanti cavalli fidiaci, con quelli di David, di Géricault, del romano Pinelli (20) e di Delacroix fino ai cavalli maremmani in corsa di Duilio Cambellotti e a quelli imbizzarriti di Aligi Sassu. (21)

Il soggetto, connotato politicamente, nella narrazione è sottoposto a dati parzialmente di origine percettiva, ma soprattutto di tipo cognitivo e concettuale che si sovrappongono. Così olocausto (1979, bronzo) diventa il canto della sopravvivenza.

Nell’ infrazione di modelli picassiani (mucca 1981 ferro; 1984 bronzo) alcuni motivi restano come fenomeno di riflessione critica non manieristico. La capra del parigino musèe Picasso ha l’ironica spavalderia degli esemplari di Nena che rielaborano pure l’energia realistica di una celebre incisione di Luca da Leida (22) e il motivo iconografico predominante, più volte replicato, di una scena pastorale di Jacopo da Bassano.

Lo scultore indaga su altre fonti: il volo spiegato di colombe di Arturo Martini (la caccia 1976, ferro; monumento ai caduti 1980 plastilina; bozzetti per San Francesco 1990-92) anche se sostituisce alla serrata compattezza formale del grande conterraneo (23) la proiezione nello spazio psicologico dell’azione futura, mentre va riducendo nei diversi bozzetti, il numero delle colombe. I medesimi rapporti assumono alcuni cavalli di Nena (1974, resina; 1984, ferro) con un bozzetto di Arturo Martini (24) che può aver investito il concittadino con altri aspetti voluttuosi e commoventi.

Nessuna meraviglia che della “mise en scene” di alcuni racconti di Martini si ricordi Nena in episodi descrittivi e poetici: mucca con vitellino nel paesaggio (1984), cavallo nel paesaggio (1993 rilievo).

Vi è nel bestiario di: Nena un decor di doviziosa poesia che permane, capace di addolcire l’immenso paesaggio della terra immerso nelle situazioni più fosche. La concezione tenebrosa dell’umanità cede a isole in cui agisce l’animale per diffondere una luce di redenzione.

Una specie di “zoo d’amore” (25) dove il gioco delle trasposizioni negli immensi orizzonti della natura è illusione consentita.

 


 

 

 

 

Quarta parte

L’ombra e la grazia

Era il 1972. Alla 36a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale venivano proposti con grande fiducia quattro progetti per Venezia che non si sarebbero mai realizzati. Ma, in 14 sale del Padiglione Centrale, Marchiori e Carandente identificavano “aspetti della scultura italiana contemporanea: vent’ anni di ricerca plastica”.

Considerando l’esperienza a posteriori è lecito supporre che fra gli interessi di Nena in quell’ anno vi fosse LeoncilIo (26). Tra le sculture sparse nella città pure Etienne-Martin con il grande urlo (27) può averne suscitato la curiosità. Le affinità tra Leoncillo, Etienne-Martin e Nena riguardano varie componenti nel labirinto del lato creativo, costanti che si intrecciano. Anzitutto la scelta tematica della violenza e dell’orrore esplicitata con alta espressività: strutture verticali come valore primario, animate di vita intensa e drammatica mediante scavi, lacerazioni di fronte all’ esperienza emozionale e spirituale della realtà. Inoltre il valore delle azioni umane e l’esaltazione del coraggio quando esisteva una paura che, per contagio, poteva insinuarsi nello spirito, nel cuore e nell’ immaginazione.

Poichè la struttura del mondo non è disegnata su ideali di immobilità e armonia Nena, mosso dalle circostanze della oggettività le affrontava direttamente con ritmo scatenato certo di non poter estrarre delle leggi dalla lezione degli avvenimenti. Quand’ anche citati direttamente olocausto, la partigiana, prigionia, fame nel mondo, ribellione pure assumendo la metafora del Cristo usque tandem, ecce homo, crocifissione, deposizione, rappresentano immagini di lotta, di azione, di pensiero e assumono valore di esempio e di testimonianza. Vicende turbinose, imprese pericolose, rischio, virtù sono investite da oscuri venti di sventura.

L’espressione di una volontà tragica risuona con inflessioni violente (cervo ferito 1965 e 1976, angoscia 1970) con qualcosa di antico e di originale perchè il male ha pianta stabile nell’ uomo ma può essere fatto senza ragione, quasi pauroso determinismo dell’ irrazionale ( Cristo in croce e Maria 1978, olocausto II 1987).

Allora tra l’idea e la libertà tra il movimento e l’atto cade l’ombra.

Ma ecco l’attesa: di un evento (attesa 11973 ). Poi la maternità come espressione più alta della femminilità (attesa II 1975 e attesa III 1976 ). Sull’ attesa Nena si sofferma a più riprese. La scena viene offerta in un presente che torna con regolarità e con la malinconia della solitudine a cui la donna sfugge attraverso il filo misterioso del colloquio con il figlio.

Prima in un abbraccio serrato (1974), concitata istantanea, racchiusa in un volume perfetto, poi ( madre con figlio 1979 ) gioioso, aperto fino a maternità (1993) che emana un senso di pienezza del sentimento con intermittenze formali, arresti, riprese ritmate, memori di Emilio Greco. (28)

Non lontano, quasi un richiamo, la storia di questo rapporto affidato a Maria, la Donna, per eccellenza, (Madonna del soccorso 1979; Vergine dell’ accoglienza 1991 ) descritto con la meraviglia illuminante di un’estenuante raffinata grazia, esibita nel combinare incanti. Per Nena il tema ha un rilievo allusivo, di suggestione e di decorazione, come se la sua pedagogia consistesse nell’ educare i sensi attraverso una scultura che ha come problema la felicità immediata.

Lo stile morbido, cortese di queste prove svolge un linearismo ornamentale da gotico internazionale ma mette in luce la musicalità del ritmo di esperienze simboliste e anche nabis.

Passando per Pisanello, e prima ancora per Tommaso da Modena, pittore che a Treviso a metà del XIV secolo lascia il meglio della sua produzione (29), tocca altri artisti che in questa città hanno operato: Gino Rossi tra il 1908 e il ’14 (30) e Arturo Martini degli anni ‘ 20 (31). Se a Tomaso possiamo accostare la cordiale vena narrativa che Nena introduce nel gesto sapiente del Bambino e nell’ aspetto colloquiante delle mani di Maria, pensiamo gli sia stato impossibile sottrarsi all’ incanto dell’ intreccio di linee ricurve, di inquieta felicità di Rossi e Martini.

Altre opere non escludono la grazia nel pensiero estetico di cui le investe lo scultore: le scene pastorali degli inizi, sogno e ballerina del’ 69, gioia di vivere che ricorda Mascherini degli anni ’30, bambina su seggiola, Marilù, bambino in altalena del ’76, conmoventi recitativi descritti da incantevoli positure. Delphos del ’89 è un’ invenzione che sta tra le korai dell’ Acropoli, immagini di organica astrazione, e gli elegantissimi abiti con i quali Mariano Fortuny vestiva in scena e nella vita Sarah Bernhard., Eleonora Duse, Lilian Gish (32).

I ritratti portano un altro contributo alla duplice immagine di Nena e rappresentano due momenti della sua esistenza. Il loro interesse sta nella sparizione quasi totale di ogni emblema e spesso nell’abolizione della mezza figura. Alcuni personaggi maschili ( Tonino e Viki 1968, Victor 1977 ) mimano un articolato quadro della vita mentre le figure femminili ostentano interesse decorativo o commemorativo (ritratto con medaglione 1976, ritratto di donna 1978, ritratto muliebre e donna con turbante 1979, Marisa 1980). I tratti fisionomici e gli accorgimenti stilistici (con variazione di acconciature e di ritmi che rilevano un gusto per la linea ascensionale, per la forma ad anfora con volumi fluidi) sono sullo stesso piano. La tecnica dello scultore è sincera sugli elementi espressivi del personaggio. Pure c’ è sempre un’ ombra, quasi di abitudine alla malinconia o ricordo di un dolore trascorso, negli sguardi severi con una luce ferma che turba.

I volti giovani (Francesca, Milena, Nunzia 1983, Giulia 1985, Michela o Roberta 1994) suggeriscono un senso d’invito o di attesa. Ma il simbolo di natura psicologica del loro universo (un paradiso intravisto?) non esiste mentre è evidente il loro esser gente comune che diventa straordinaria.

NOTE

I) M. Yourcenar, L’uomo che amava le pietre in Pellegrina e straniera, Einaudi 1990

2) Alessandro Mazzucotelli (Lodi 1865 – Milano 1938) riporta in auge , nella cultura modernista, l’arte del ferro battuto. Si afferma in ambito europeo con elementi di arredo e di architettura.

3) Marcello Mascherini, fiore meccanico, 1970.

4) Carlo Rizzarda (Feltre BL 1883 – Milano 1931) artista del ferro battuto diventato famoso lascia alla città natale la sua dimora e la collezione privata permettendo la costituzione del Museo che raccoglie gran parte della sua opera.

5) Toni Benetton (Treviso 1910) scultore che dedica al ferro il meglio della sua ricerca affrontando la grande dimensione plastica. Ha fondato L’Accademia Internazionale del ferro a Marocco (VE) dove nelle sale e nel parco della villa Marignana ha aperto al pubblico la sua raccolta permanente. Ha opere nelle più importanti collezioni di scultura, pubbliche e private mondiali.

6) Petrassi, cancelletto 1928 ferro, Quirinetta, Roma.

7) T. Benetton, cavalieri, 1952 ferro.

8) Dall’ ecce Homo I 1964, Città del Vaticano al Cristo Lux mundi 1993. Chiesa di S. Maria del Carmelo, Terni.

9) P. Levi, Il ferro in Il sistema periodico. Einaudi 1975.

10) Una trentina di universitari, tra i quali Primo Levi. ammessi al laboratorio di

Analisi Qualitativa del Il anno, dovevano confrontarsi “con la Materia-Mater, con la madre nemica, il ferro”.

11) Con un annuncio identico, solenne, si era sciolto il conclave che aveva portato al Soglio Pontificio il Cardinale Pacelli.

12) Jacopo da Bassano, Crocifissione, 1562-63, Civico Museo Bailo Treviso .

13) U. Wolf, Canto n. 10 dal Primo libro dei Canti Spagnoli.

14) I raggi sono comuni nell’arte di Oltrealpe (H. Holbein il Vecchio, Cristo coronato di spine 1945) sino al contatto rinascimentale con l’Italia quando i raggi invadono le nostre tele. Leonardo già nel 1475 (Annunciazione, Uffizi, Firenze) usa l’aureola a raggi sul capo dell’ Angelo ma del nimbo su quello di Maria, per una diversa interpretazione delle due figure.

15) ms 26, Walters Art Gallery, Baltimora.

16) Cass. 3,12, f. 24: Inizio di Terza, Lettera D miniata e drago. Proprietario Filippino de Solza registrato nell’estimo del 1427.

17) Hildesheim, Duomo

18) Eroe, Museo Nazionale, Reggio Calabria.

19) Scena di tauromachia 1450 a.c. da Cnosso, Museo di lraklion, Candia.

20) Fidia, cavalieri, fregio del Partenone, British Museum Londra; Louis David (Parigi 1748 . Bruxelles 1825) J. L. Theodore Gericault (Rouen 1791 – Parigi 1824). Bartolomeo Pinelli (Roma 1781 – 1835) incisioni.

21) Eugene Delacroix (Charent 1798 – Parigi 1863), fantasia araba; Duilio Cambellotti (Roma 1876 – 1960); Aligi Sassu (Milano 1912).

22) Luca da Leida, la lattaia 1510, incisione.

23) Arturo Martini (Treviso 1889 – Milano 1947), volo di colombe 1929-30, stele cimiteriale, cappella Mathon , Livorno.

24) Arturo Martini, puledro 1933 bronzo.

25) I due termini costituiscono il titolo di un libro di poesia di un amico che scrive in un “doloroso tempo” e in un “paesaggio di desolazione”: G. Mascioni, Zoo d’amore, con venti incisioni di Nag Arnold, Book Editore 1993.

26) Leoncillo (Leoncillo Leonardi Spoleto 1915 – Roma 1968).

27) Etienne Martin (Martin Etienne, Loriol Francia 1913).

28) Emilio Greco ( Catania 1913) raffinato e famoso scultore e incisore, vive e opera a Roma. grande bagnante n.1, gesso Museo Emilio Greco, Sabaudia. Alfiero Nena segue il suo insegnamento e con lui si diploma ali’ Accademia di Belle Arti.

29) Tomaso da Modena (Tomaso Barisini, Modena 1326 – 1379) quaranta ritratti di domenicani, Sala Capitolare, Convento di S. Nicolò; S. Girolamo, S. Agnese, pilastri, chiesa di S. Nicolò; storie di S. Orsola, chiesa di S. Margherita ora in museo S. Caterina, Treviso.

30) Gino Rossi (Venezia 1884 – S. Artemio, Treviso 1947) mestizia 1910, Padova, colI. privata.

31) Arturo Martini, Ofelia. 1922, gesso.

32) Mariano Fortuny y Madrazo (Granada 1861 – Venezia 1939) artista eclettico. Il museo a lui dedicato a Venezia per la donazione del palazzetto gotico sua dimora, contiene, oltre ai suoi dipinti, raffinati tappeti, stoffe, costumi teatrali, abiti usciti dal suo ateliér.