Domenico Guzzi

Sacro e profano in Alfiero Nena 

Domenico Guzzi 2004

 

Poiché ci sembra che la scultura di Alfiero Nena, oltre che per materiali (ferro anzitutto, quindi bronzo terracotta e resina), possa essere anche sotto il profilo della tematica considerata attraverso due essenziali momenti: quello “sacro” e quello “profano”; e poiché la questione dell’“arte sacra” si dà fuor di dubbio “nodale” nella sua esperienza, ci si consentirà di avviare il discorso da alcune riflessioni che attengono propriamente a quel “problema”, cui quasi ciclicamente, d’altronde, non pochi hanno recato il proprio contributo teorico.
In altri termini, tutto appare convergere verso e attorno ad un solo interrogativo: in quale misura, vale a dire e con quali prospettive, l’artista di oggi può dare indicazioni della sua presenza nel territorio del “sacro”? Come impegnarlo, insomma – in un tempo, una società e civiltà tutt’altro che tese al trascendente – se non lasciando libero spazio ai motivi della sua creazione, fossero, questi, anche “demoniaci”? In verità -lo si scriveva già nel 1984 – nell’iconografia contemporanea per la Chiesa (come già ai tempi, tra gli altri e ad esempio, di Luca Signorelli, che vi dette immagine nel Duomo di Orvieto) non esiste un Inferno dipinto da Pablo Picasso. Eppure chi, più di quell’artista, avrebbe potuto dar visione, con la deformazione simbolica ed interpretativa della realtà, al tormento esistenziale dell’individuo, da Guernica ai giorni nostri?
Ciò detto, e poiché non si vuol divagare e per essere stretti il più possibile al problema, dichiariamo sin da subito alcune letture che abbiam fatte, in tale circostanza (o riprese in mano), e che connetteremo, in adesione o meno, all’esperienza dello scultore. Si tratta, tra gli altri e anzitutto, di due testi -l’uno del 1931, l’altro del 1964- di Giovan Battista Montini, nel 1963 salito al Soglio Pontificio: Paolo VI. Così, dal primo scritto, in cui l’autore si chiedeva quale sarebbe stato il futuro dell’“arte sacra”, non sarà di poco interesse seguire l’affermazione per la quale “[…] Avremmo anche noi allineato il passo frettoloso con quelli cui un assillante attualismo sospinge verso l’affannosa ricerca del nuovo, quasi che il nuovo fosse del bello fonte e misura? […]” . Certo, il nuovo non è -o non è sempre- indice sicuro non già del bello, su cui ci si soffermerà più oltre, ma di qualità, che è il referente di maggior conto in termini estetici; così come neppure la ripetizione o reinterpretazione del già compiuto assicurano un profilo “alto” ad un’opera attuale, né -diciamo- questa rifletterebbe le necessità etiche, spirituali e culturali del tempo attraversato. Tanto meno si pensa che avrebbe valore ed importanza un’opera la quale unicamente rispondesse a canoni “devozionali”. E’ chiaro che si trattava in ogni caso di un’asserzione la quale sottintendeva, da par suo, la “[…] differenza fra modernità e modernismo […]” . E non è mai lecito, non solo nell’ottica della Chiesa ma di quanti separano dall’arte ogni forma di “accademia”, che il secondo stia a pari della prima.

Nell’ambito d’esperienza “sacra”, si colloca il Crocifisso di Nena Lux Mundi (1990), conservato (ed è la sua opera, forse, maggiormente nota), nei pressi dell’Ambone, nella Basilica di Santa Maria del Popolo a Roma. Alfiero Nena trasferisce in quelle membra dilaniate accenti di ascendenza a loro modo “emotivi”, in alcuni casi giungendo ad un’amplificazione e deformazione dei meri dati formali. E ciò fa, naturalmente, in via di necessità. Nel Cristo-Uomo riconoscendo umane sofferenze. Se ne veda, in tal maniera, il torace di cui realisticamente si contano le costole. Si veda il plasticato del ventre; si veda la scarnificazione delle gambe; ma pur si veda come, in soluzione concettuale e in assenza del “legno” della croce, quelle braccia si tendano, sì, nel segno del martirio, ma parimenti evochino la gestualità esultante della Resurrezione. Mentre non sarà ozioso sottolineare -la scultura va, per sua natura, osservata da ogni lato- il modellato forte, che neppur attenua eco di soluzioni “a memoria” o di “maniera”, con il quale lo scultore giunge a definire il retro di quel corpo. Per poi rendere men dure le indicazioni (così suggerendo una sorta di interna separazione all’immagine) nel volto che, certamente segnato anch’esso, tuttavia conserva accenni di sacrale distensione. Quel che, tuttavia e come detto, emblematicamente è più significativo si considera l’assenza della croce; il che si crede che se non proprio costituisca un unicum iconografico, sia soluzione desueta. E non priva di significato. Mentre filiformi vettrici –che, al di là d’ogni dubbio, si riferiscono alla dimensione della luce, e che pur si riscontrano in talune altre opere dal medesimo titolo, conservate in chiese di altre città italiane: Sorrento, Terni ad esempio- si levano dal gran sasso-basamento, concettualmente pari alla pietra del sepolcro. Motivo che in quel complessivo atteggiamento non solo evoca il rivolgersi al Padre nell’attimo che precede la morte, ma la gloria che, con la Resurrezione appunto, sconfigge la morte stessa. In ragione di ciò -come d’altra parte notato da Mario Ursino- “[…] il corpo ritrova il suo vigore nell’impeto della Resurrezione, rammentando però che essa è avvenuta a seguito delle sofferenze della croce […]” . Ragionamento che può legittimamente ripetersi per le ulteriori Lux mundi, tutte prive del Legno. Il che se ha un’eco per aspetto teologico, pur sembrerebbe averlo in chiave di equilibrio formale, sottraendo a certa “coreografia” dell’immagine la pesantezza di un elemento iconografico.
A rendere in immagine scultorea tutto ciò, ci chiediamo e riprendendo il ragionamento d’inizio, occorre aver fede? O non è un dato che allo scultore può provenire dalla mera conoscenza “storica” delle Scritture? La fede è dato troppo “privato” perché a Nena si potesse chiedere se l’abbia o meno; d’altronde egli parla il linguaggio della sua opera, dal quale si avverte una “pietas”, che francamente rende come un di più ogni altra considerazione.

Non è d’altra parte neppur questo il quesito, nel “ […] trambusto vivacissimo della controversia estetica attuale […]” , quanto quello che pone la domanda per la quale “[…] Se il Medio-Evo ebbe prevalente una preoccupazione di ordine nella sua opera artistica; se il Rinascimento cercò di rivestire di umanità perfetta, quale l’antichità classica suggeriva, il fatto cristiano, cedendo a tendenza umanistica e decorativa; se il Barocco cercò l’effetto esteriore e meraviglioso dell’espressione; se il Romanticismo fu un richiamo alla sincerità sentimentale; quale sarà l’indirizzo dominante l’“arte sacra” del nostro secolo rinnovato e rinnovatore? / Diversi indirizzi si palesano. Ma si tratta di trovare quello che deve prevalere. Formidabile problema, lo so; ma già c’è chi vien districandolo, e già nelle opere si vien risolvendo […]” . Affermazione che, propriamente ripercorrendo il flusso della storia, tenta di dar termine ad una possibile analisi sull’attualità. In qual modo, dunque, è lecito che si profili la soluzione del problema? “[…] con il rifiuto sempre più fiero ed aperto agli indirizzi, che, per un verso, non indovinano il genio del nostro tempo, per un altro, non raggiungono né l’autenticità della forma sacra, né l’utilità d’un impiego per un qualche culto realmente religioso, che rifiuta di servirsi di opere difettose nell’espressione sacra, o nel contenuto sacro […]” . Se le premesse sembravano a loro modo di “apertura”, di segno contrario viceversa appaiono le conclusioni. Tanto da poter dire che sull’argomento tutto diviene davvero opinabile.
Se si porrà attenzione al Crocifisso del 1975, in ferro, ci si avvedrà, ad ogni modo, come Nena propriamente non faccia suoi i dettati della Chiesa, ma si preoccupi, anzitutto, di rendere emblematicamente “emotive” un’immagine ed un’immaginazione, giungendo a soluzioni che appaiono addirittura sovvertire ogni canone. Il Cristo – anch’esso privato della croce- martoriato per il batter sul ferro, così come nella storia, allenta ogni relazione con la classica iconografia e si sorregge, simbolicamente, su una sorta di “totem” che, una volta di più, poggia su un gran sasso. Come a significare una diretta unione tra il Divino e la natura. Ne consegue una forma che nulla ha di “naturalistico” ma che fa riferimento, in essenza, ad una necessità di ordine compositivo.
Le posizioni della Chiesa e dell’arte – come detto, dunque – non di rado si vengono addirittura a trovare l’una contro l’altra. Perché se l’Istituzione ha – e non può non avere – le proprie necessità, non è per nulla detto che queste siano coincidenti con quelle dell’arte e della cultura nel secolo XX, epoca quante mai protagonista e testimone di un moto di accelerazione verso concreti soggettivismi. Tanto che lo stesso Montini -consapevole d’una “separazione”- continua a scrivere: “[…] La via lata, ma non maestra, nella quale s’è messa certa “arte sacra” spontanea, cioè estranea alla vita mistica e gerarchica della Chiesa, appare ogni giorno di più diretta verso il deserto. Ed è la via seguita da quanti applicano, senza il vaglio d’una cultura religiosa e senza il sussidio d’una intima pratica di fede, l’arte profana, mediante una semplice trasposizione, e non riforma, di psicologia e di tecnica, a soggetti sacri; i quali risultano così travestiti di abiti tutt’altro che adatti a interpretare il sacro, intimo e nascosto […]” . Il che non si nega che abbia taluni fondamenti ma, in linea generale, sarebbe come pretendere dall’artista d’oggi – i cui problemi esistenziali e culturali sono assai diversi da quelli degli artisti del passato – che, come gli antichi pittori di icone, prima del proprio lavoro avvii una sorta di processo purificatore . Non per nulla “[…] se vogliamo dare, ripetiamo, autenticità e pienezza al momento artistico religioso […] è necessaria la sua preparazione, la sua catechesi; bisogna in altri termini farla prendere o accompagnare dalla istruzione religiosa […] Bisogna essere istruiti […]” . Il che giunge a definire la questione al di là d’ogni contraddittorio.

La tematica del martirio del Cristo per Nena non si risolve unicamente nel bronzo Lux Mundi -e negli altri in ferro-, di cui s’è detto. Nell’atelier, infatti, l’artista conserva, sul lato destro in fondo al grande ambiente, un’altra “versione” e di dimensione monumentale, in ferro anch’essa. Comparando le immagini, posson trarsene conclusioni per certi versi contigue, con l’in più d’una materia che conduce la figurazione ad accenti di maggior dramma. Se nell’opera di Santa Maria del Popolo, infatti, la luce, ad esempio, scivola sulle forme, in questa, entrando negli agri interstizi materici, ed essendone “catturata”, genera ombre fortissime che, dunque, accentuano la stessa dimensione del dolore in una forma che si assume dichiaratamente di derivazione “espressionista”. Né lo scultore si lascia prender la mano da accenti vòlti al connettersi della “bella soluzione”, e così per nulla attenua la tensione dell’evento in atto. Il ferro, certo, contribuisce ad alimentare ogni sensazione, la quale accompagna, d’altra parte, la sua idea di forma. Il ferro: materia con la quale egli si sperimenta da lunghi anni, giungendo ad essere, tra maglio e forgia, un artefice “singolare”. Materia -per la quale si rende necessaria una forte manualità- con cui, ancora e per di più, si tende a rendere univoco ogni ragionamento tra “arte” e “artigianato”. Elevando l’uno all’altra, non disdegnando che l’una possa strettamente colloquiare con l’altro. In tal modo potranno anche avvertirsi momenti in cui la “maniera” tenda a prevalere ma, di contro, anche e soprattutto s’avverte la ricerca difficile di uno “stile”, cui fa eco certo forzare significativo talune posizioni. Come lo squarcio che, dal collo al ventre, apre il torace del Cristo. Non è un riferimento che s’incontra nelle “Scritture”, ma è un moto dell’anima dello scultore che con ciò amplifica, e rende ancor più oggettivo, il segno del martirio.
L’“atelier” dello scultore è una fucina. Il che ci fa pensare a quel bel “passo” dell’“Iliade” omerico ove si parla di Vulcano: “[…] e a dritta e a manca / il passo ne reggean forme e figure / di vaghe ancelle, tutte d’oro, e a vive / giovinette simili, entro il cui seno / avea messo il gran fabbro e voce e vita / e vigor d’intelletto, e delle care / arti insegnate dai Celesti il senno […]” . Come a dire che dal Cristo in ferro di Nena par ascoltarsi l’ultima invocazione.
Ci si intenda. Nello scultore – soprattutto in queste sue opere in ferro, ragionamento diverso potrà semmai farsi per le tecniche ulteriori della sua esperienza – non sembrerebbe esservi alcuna intenzione di offrire, pur certamente avviandosi sempre da una realtà osservata – com’egli stesso ci diceva -, un’immagine strettamente “mimetica”. Egli, infatti -come uomo, d’altra parte del nostro tempo, non distante da accadimenti che evocano il “dramma” (in quanto tale, profondamente umano) – lacera materia e forme, le rende entrambe aspre, essenziali; le batte, le sfora, le sfibra, le assottiglia, le riduce alle sue esigenze; le riconduce, infine, ad un’“essenza” di energia. Cioè ad una sintesi espressiva, da cui si dà chiaro un carattere forte. Allo stesso modo, si crede che sia di qualche interesse accennare al “processo” per via del quale giungere all’immagine. Immagine che si direbbe nasca per singoli “brani”, alla fine assemblati con la fiamma ossidrica. Ciò vuol dire che lo scultore ha in sé pressoché definita la coscienza dell’opera, giungendo a “produrre” più elementi, tanto organici da costituirsi in completezza. Il che, per un’immagine che voglia avere un significato oltre che un significante, non è poco. E sono, perciò, in questo Cristo -anch’esso non casualmente privato della Croce- fortemente evocati i concetti di Morte e di Resurrezione. Quelli di mortificazione dell’Uomo, e di salvezza nell’Assoluto.

Tornando sia all’idea di “arte sacra” che ai sottintesi del Montini, nonché all’interrogativo che non s’è posto allo scultore, si ripropone la domanda di sempre. Occorre credere per fare “arte sacra”? Non può un grande artista, agnostico o non credente, compiere un’opera perfetta, qualitativamente assai migliore d’una concepita da un mediocre, ma credente? Il problema effettivo, e scarsamente riconosciuto, è che la Chiesa ha necessità dell’arte – si serve di essa – per fini che non sono propri all’arte, dunque vedendola sotto l’unico profilo della fede. Ciò vuol significare, in altri termini: non importa che un’immagine sia di alto livello, l’importante, con la sua facile accessibilità, è che consenta al popolo fedele di volgersi alla preghiera. Prova ne sia, nonostante la si sia indicata come apertura e “[…] ritrovata amicizia […]” tra Chiesa ed artisti, che la “Costituzione Conciliare sulla Sacra Liturgia” esplicitamente parli di un’arte “[…] capace di servire col debito rispetto e il debito onore all’edificio sacro e ai sacri riti, in modo che anch’essa possa unire la sua voce a quel meraviglioso canto di gloria, che i sommi dei secoli passati cantarono alla fede cattolica […]” . E qui, tuttavia, crediamo che debba aprirsi una parentesi. E’ vero. Quei sommi artisti, cui si fa richiamo, servirono la Chiesa – loro prevalente committente – ciò non di meno -Giotto, ad esempio- ebbero possibilità di esprimere il proprio codice estetico, non di rado conducendo ad evoluzione il codice stesso dell’arte. Tanto che del pittore del “ciclo assisiate” Giorgio Vasari potè scrivere che “[…] bandì la greca goffa maniera […]” . E, ancora quella “Costituzione Conciliare”, statuisce che “[…] I Vescovi si preoccupino che siano rimosse con ogni diligenza dalla casa di Dio e dagli altri luoghi sacri tutte quelle opere d’arte che sono in contrasto con la fede, con i costumi e con la pietà cristiani, che offendono il vero senso religioso sia per lo sfiguramento delle forme sia per la insufficienza e la mediocrità del livello artistico come pure per il loro carattere fittizio […]” .
Non si avrebbe nulla da ribattere se non fosse stato fatto esplicito accenno allo “sfiguramento delle forme”, il quale potrebbe anche voler sottintendere il motivo interpretativo di quanti celebrano l’Eterno con qualità “espressionista” del proprio fare. Si avverte, dunque, una contraddizione rispetto a quello straordinario “passo” del “Discorso agli artisti” di S.S. Paolo VI, in cui il Pontefice scriveva: “[…] Ma per essere sincero e ardito – accenniamo appena, come vedete – riconosciamo che anche Noi vi abbiamo fatto un po’ tribolare. Vi abbiamo fatto tribolare, perché vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità. Noi – vi si diceva – abbiamo questo stile, bisogna adeguarvisi; noi abbiamo questa tradizione, e bisogna esservi fedeli; noi abbiamo questi maestri, e bisogna seguirli; noi abbiamo questi canoni, e non v’è via di uscita. Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci! […]” . Se nella Cappella Sistina risuonavano, perciò, tali parole, “ […] Dal canto loro tutti gli artisti che si sentano portati a servire alla gloria di Dio nella santa Chiesa, si ricordino sempre che la loro azione tende ad imitare in qualche modo santamente Dio creatore e che ha per oggetto opere destinate al culto cattolico, alla edificazione, alla pietà e all’istruzione religiosa dei fedeli […]” . Se ne trae la conseguenza di un’arte “didascalica”. Capace di commuovere non in quanto arte, ma in quanto rappresentazione realistica, se non proprio illustrativa, di un evento. Ed è chiaro che, ciò detto e nonostante “[…] la Chiesa non ha fatto suo alcun stile artistico, ma ne ammise tutti i tipi, in conformità all’indole e alla cultura dei popoli […]” , di fatto si viene a disperdere il fondamento per il quale “[…] Noi dobbiamo domandare a voi tutte le possibilità che il Signore vi ha donato, e, quindi, nell’ambito della funzionalità e della finalità, che affratellano l’arte al culto di Dio, noi dobbiamo lasciare alle vostre voci il canto libero e potente, di cui siete capaci […]” . Espressioni di apertura – e nel cui solco s’inseriscono alcune opere di Nena – cui accanto lo stesso Pontefice non tarda, tuttavia, ad allinearne altre di più severa e stretta osservanza: “[…] Occorre l’indispensabile caratteristica del momento religioso, e cioè la sincerità. Non si tratta più solo d’arte, ma di spiritualità […]” . E’ chiaro -prova al contrario ne sia, ad esempio e del nostro scultore, il Cristo del 1974, il cui corpo “appeso” quasi si confonde tra i rami di un albero- che sincerità e spiritualità non assicurano, anzi, l’esistenza di un’opera d’arte.

Ulteriore esperienza di Nena – che sacra unicamente diremmo per il luogo ov’essa è accolta ma, a ben considerarla, anche per richiami squisitamente simbolici -: il Cancello della Cappella Lituana nelle Grotte Vaticane. Opera che, per esser tale, esempla l’aspetto più “manuale” dello scultore. Il quale, tuttavia e non di meno, immagina un “gioco” di quadrati, in verticale reciprocamente intersecati, all’interno di alcuni dei quali inserisce ritmicamente immagini antropomorfe e zoomorfe più prossime all’allegoria. Si trattava, evidentemente e considerando il luogo, di concepire un “portale” che non chiudesse definitivamente, ma fungesse quasi da diaframma e, perciò, consentisse di guardare oltre. Di qui deriva un’invenzione formale che, d’altra parte, neppur è al di là dell’aspetto meramente emblematico, considerando che la forma del quadrato è suscitatrice -assieme al centro, al cerchio e alla croce- d’uno dei quattro simboli fondamentali. Più propriamente, esso rimanda all’universo creato, così come “[…] implica un’idea […] di stabilizzazione nella perfezione come nella Gerusalemme Celeste […]” . E qui, certo, il discorso relativo alla “manualità” e alla “decorazione” sembrerebbe farsi più presente, se pur si considerino –sfogliando la biografia dello scultore – alcune opere che, dagli anni Cinquanta, ne hanno indicato parte dell’attività. Pensiamo al cancello Autunno (1950) sito a Bologna; alle pari opere –Zoo, cancelletto; Zoo, cancello; Zoo ringhiera (1952)- ad Olmi; si pensa alla ringhiera Corsa al trotto (1958) a Treviso; sino ad altre e più recenti: La caccia (1965), cancello in Roma; elaborazioni per le quali Nena sembrerebbe aver fatto un esplicito richiamo a locuzioni liberty, in tal maniera approssimandosi alla dimensione della storia.

Ci si permetta di tornare, per breve, a ragionare su un argomento già accennato. Ci sembra chiaro che da alcune delle parole e dal senso complessivo dei discorsi riferiti, in buona sostanza, si dia l’implicita negazione che un non credente o un agnostico possano fare “arte sacra”. E de Chirico, con il suo Grande Metafisico? Non è, questi, immagine simbolica di Dio? E non è la Metafisica una pittura la cui soluzione va oltre, come afferma la parola stessa, le cose del mondo fisico? Eppure, la Chiesa non lo ha riconosciuto per il suo verso sacro. E Alberto Burri: le sue significanti lacerazioni della materia non potrebbero intendersi come indicazione, pur esse simboliche, della “passione”? Insomma, de Chirico e Burri non sono anch’essi possibili voci di un sacro? Sembrerà strano che l’Istituzione Ecclesiastica, nello svolgersi del cui “ministero” è propriamente il simbolismo, finisca per negare all’arte la possibilità proprio d’esprimersi simbolicamente, per di contro avvalorare un’esperienza di immediata comunicazione. Verità è che la Chiesa ribadisce la necessità di fare affidamento non già su chi “[…] cultore d’“arte sacra”, […] vuol aprirsi da sé; e allora egli finge l’arte religiosa come la più soggettiva, perché la più ineffabile nell’interiore emozione e nell’obbiettiva significazione; e corre vagando così dove nessuno più lo comprende, o dove lo colpisce il rimprovero d’aver travisato quel sacro che tutto un popolo conosce e venera, e una Chiesa insegna e difende […]” , ma su chi riconosce che “[…] primo problema per l’“arte sacra” è quello dell’ortodossia. […] non intendo solo l’ossequio alla verità storica delle scene o persone bibliche o sacre rappresentate, ma anche l’aderenza intima, negli scopi, nei gusti, nelle forme alla vita totale della Chiesa. / La prima ragione della sacra bellezza, che andiamo cercando, non naviga in astratte ragioni ideali; non posa in perfette forme, solo contente dell’armonia delle loro linee, non discende nell’inconscia emozione del sentimento; ma splende, dove la Verità si manifesta qual è vita divina. L’essenza e l’intelligenza, quali la rivelazione palesa e feconda, sono i primi fattori di questa estetica dell’“arte sacra” per il secolo nostro […]” .
E qui si propongono, è ovvio, talune riflessioni che, per un verso o per l’altro, possono pur riferirsi al nostro scultore. Il termine “bellezza” -più volte ribadito- si considera decisamente fuorviante. Non solo e non già perché con l’avvento dell’Espressionismo storico, ad esempio e pur di altre fenomenologie creative, esso in arte ha perduto quella priorità che in stagioni diverse sembrerebbe aver avuto; ma fuorviante -ed è davvero strano il concetto secondo cui “[…] Il tema della bellezza è qualificante per un discorso sull’arte […]” – in quanto si tende a non separarlo da quello di bontà, in tal maniera creando un’equazione non sempre accettabile: “[…] Il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafìsica della bellezza […]” .
Riflettiamo -e ciò si dice a vantaggio delle opere, seppur non di tutte, di Nena-: bellezza il Pontefice la intende come specchio d’una forma reale. Il Cristo è “infinitamente buono” e, dunque, secondo tale logica, dev’esser bellissimo. Tali, in realtà: sarà la deformazione, la contrazione formale, l’amplificazione di talune condizioni contingenti, non ci appaiono i Cristi di Nena. Ma dal punto di vista estetico -con riferimento all’opera- non è la bellezza fisica che conta. E allora? Allora diverse sono le necessità della Chiesa e dell’arte.
E’ chiaro che l’attuale Pontefice – il quale è importante che abbia comunque avvertito anch’Egli la necessità di rivolgersi agli artisti – riconduce ogni considerazione entro termini esclusivamente o per lo più teologici. Ma – da laici – riteniamo non solo che l’arte non sia scienza (se non per taluni avvertimenti compositivi), né sia filosofia, e neppure teologia. Tant’è: “[…] Ne è scaturita una fioritura di bellezza che proprio da qui, dal mistero dell’Incarnazione, ha tratto la sua linfa. Facendosi uomo, infatti, il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza […]” . Come si nota e come si sa, dunque, l’arte e la Chiesa tendono entrambe ad una ricerca di “verità”, per strade tuttavia parallele. Ed è logico che sia così, considerando che l’una è portatrice di “certezze” e che l’altra, viceversa, non ne ha alcuna, se non quella di una realtà che si concreta in un continuo ricercare-facendo. Siamo convinti che lo scultore, come ogni altro, giunga al buon esito della sua opera a volte persino per condizioni di casualità e, sempre in ogni caso, verificando il progress dell’immagine. Pur se, precisato ciò, appare condivisibile -ma sul terreno umano, cioè della storia- quanto lo stesso Pontefice ha osservato: […] Un’esperienza condivisa da tutti gli artisti è quella del divario incolmabile che esiste tra l’opera delle loro mani, per quanto riuscita essa sia, e la perfezione folgorante della bellezza percepita nel fervore del momento creativo: quanto essi riescono ad esprimere in ciò che dipingono, scolpiscono, creano non è che un barlume di quello splendore che è balenato per qualche istante davanti agli occhi del loro spirito […]” . Poiché, tradotto in altri termini e certamente più poveri e riallacciandoci a quanto accennato, l’artista non sempre finisce per porre in atto quel che all’inizio della sua opera aveva in animo di fare. Ci viene in mente, a tal proposito, che Renzo Vespignani diceva che: “[…] Se si potessero fotografare, insieme ai quadri finiti, i quadri immaginati e non più voluti, non più potuti, si riuscirebbe forse a scandagliare il vuoto nel quale precipitano le ambizioni dell’artista moderno […]” .

Altra opera di Nena che appare interessante è la Resurrezione, 1972 (e pur pensiamo al Cristo del ’62, alla Deposizione del ’74, al Cristo del 1974). Monumentale per dimensioni e concepita anch’essa in ferro, come non poche sue altre e convincenti. E qui occorre ribadire -lo si è alluso poco avanti- la tensione dello scultore a rendere, con la sapienza della manualità, unitario ogni ragionamento tra “arte” e “artigianato”. Mentre anche occorrerà far riferimento all’essenzialità delle forme, alla scabrità anch’essa essenziale della materia, agli accenti -di cui anche s’è già detto- di luci ed ombre a concedere ulteriore significato all’immagine. La quale, per quanto asserito e per la qualità vibrata e vibrante del metodo utilizzato, non davvero tollera la “bella soluzione”, ma a questa unicamente rinvia concettualmente. Si veda, ancora, come esista e sia evidente, tra la Resurrezione ed il Cristo di Lux Mundi, una sorta di identità compositiva: le braccia levate dell’una figura inequivocabilmente richiamano quelle dell’altra, rendendo per lo scultore, così come per la Chiesa, unico il pensiero sul tema della Morte e della Resurrezione. L’allontanarsi tuttavia di quel che s’è definito il bell’effetto d’una materia levigata, induce non di meno a riflettere sull’attualità esistenziale di Nena, e del suo mondo. Ove nulla sembra evocare il segno della perfezione; dove tutto parimenti si esperimenta qui ed ora; dove tutto, infine, appare assumere il crisma della transitorietà. E sono, si dirà, proprio tali elementi e circostanze ad indurre alla “bellezza” singolare della sua soluzione. Per la quale gli effetti volumetrici appaiono attenuarsi ma non disperdersi; e dove la luce e l’ombra, soprattutto, alimentano e rendono la dichiaratività delle forme. Altra opera: il Cristo di Castagno Val d’Elsa (1972). In questo lo scultore sembra giungere a proporre un’ulteriore valenza simbolica. Non sfuggirà che alla croce, infatti, si sostituisce un albero (come nel Cristo del 1969, nel Cristo sugli spini del ’70). Con ciò quasi indicando – in relazione alla divinità del Cristo – l’esser “matrigna” della natura. La quale, prioritariamente in ragione della Figura divina assume significato “storico”, cioè umano. L’uomo che uccide. E non è, questa dunque: guardiamoci attorno, una verità non davvero controvertibile? D’altronde, quel che conta è l’esito, e l’invenzione per la quale l’esito si oggettiva.

L’arte, si diceva dunque, dalla Chiesa è considerata non nella chiave della sua vocazione ad essere evento estetico, ma quale fatto meramente strumentale: “[…] sono ragioni del Nostro ministero che Ci fanno venire in cerca di voi. Dobbiamo dire la grande parola che del resto voi già conoscete? Noi abbiamo bisogno di voi. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro Ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità […] E se Noi mancassimo del vostro ausilio, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza della espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte […]” . Allo stesso modo in cui “[…] Per trasmettere il messaggio affidatele da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve, infatti, rendere percepibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio. Deve dunque trasferire in formule significative ciò che è in se stesso ineffabile. Ora, l’arte ha una capacità tutta sua di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda o ascolta […]” .
Nelle parole dei due Pontefici si constata una pressoché perfetta identità. Ma identità pur nel considerare l’arte quale mezzo per suscitare l’emozione di chi vi si pone innanzi, proprio in quanto comunicazione e non quale valore in sé.

In quanto asserito da S.S. Paolo VI sembra avvertirsi, da un lato, il sincero desiderio di “[…] tornare ad essere amico degli artisti […]”, d’altro canto e con altrettanta chiarezza -il che lascia perplessi, considerando la intellettualità dell’uomo- certa ostinazione a non comprendere la libertà d’espressione dell’arte che, benché sacra, è pur sempre arte. Tanto da insistere: “[…] portiamo una certa ferita nel cuore, quando vi vediamo intenti a certe espressioni artistiche che offendono noi, tutori dell’umanità intera, della definizione completa dell’uomo, della sua sanità, della sua stabilità. Voi staccate l’arte dalla vita, e allora….. Ma c’è anche di più. Qualche volta dimenticate il canone fondamentale della vostra consacrazione all’espressione; non si sa cosa dite, non lo sapete tante volte anche voi: ne segue un linguaggio di Babele, di confusione. E allora dove è l’arte? L’arte dovrebbe essere intuizione, dovrebbe essere facilità, dovrebbe essere felicità. Voi non sempre ce la date questa facilità, questa felicità e allora restiamo sorpresi ed intimiditi e distaccati […]” . Si tratta, come si comprende, d’una sorta di cortocircuito. D’una fondamentale -se si crede- incomprensione d’ambo le parti, tanto che la conseguenza è stata che “[…] il linguaggio vostro per il nostro mondo è stato docile, sì, ma quasi legato, stentato, incapace di trovare la sua libera voce. E noi abbiamo sentito allora l’insoddisfazione di questa espressione artistica. E -faremo il confiteor completo, stamattina, almeno qui- vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati alla «oleografia», all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa, anche perché, a nostra discolpa, non avevamo mezzi di compiere cose grandi, cose belle, cose nuove, cose degne di essere ammirate; e siamo andati anche noi per vicoli traversi, dove l’arte e la bellezza e -ciò che è peggio per noi- il culto di Dio sono stati male serviti […]” . Ma la Chiesa quale libera voce auspica se, quando questa s’è fatta e si fa presente, la s’è definita e definisce come linguaggio di Babele? Se la Chiesa, non senza sue ragioni che possono comprendersi pur se non condividersi, richiede all’artista d’essere “istruito”, non può né deve sfuggire che anche l’arte ha, per esser tale, le proprie ragioni che devono essere parimenti studiate. E sono ragioni non solo estetiche, ma iconografiche e iconologiche, sociologiche, culturali e quante altre. Per cui raggiungere la conclusione -ogni ragionamento va storicamente inserito nel proprio tempo- che l’arte non è né può essere “facilità”, né “felicità”. Non è “facilità” perché essa ha un suo codice che non può essere ignorato per giungere a comprenderla; non è “felicità” non foss’altro perché non si conosce artista che, mentre fa, non sia massimamente inquieto con se stesso e con la sua opera. Proprio per quell’impossibilità di perfezione che è dell’arte e che, se così non fosse, non sarebbe tale. Accezioni, entrambe, che non ci sembra si diano nelle opere dello scultore. Basti tornare con la mente a quante si è avuta, sin qui, occasione di citare.
Si dice generalmente che l’artista crei, e, spesso, la sua opera vien detta creazione. Il Pontefice osserva la questione da un altro punto di vista, precisandola nei termini di “artefice” e di “creatore”: “[…] Qual è la differenza tra «creatore» ed «artefice?» Chi crea dona l’essere stesso, trae qualcosa dal nulla -ex nihilo sui et subiecti, si usa dire in latino- e questo, in senso stretto, è modo di procedere proprio soltanto dell’Onnipotente. L’artefice, invece, utilizza qualcosa di già esistente, a cui dà forma e significato. Questo modo di agire è peculiare dell’uomo in quanto immagine di Dio […]” . Ora, diciamo il vero. Si tratta di posizioni davvero difficilmente conciliabili. Che cosa userebbe -il nostro è, s’intende, un ragionamento laico che neppur prevede, tra l’altro, un archetipo e platonico “mondo delle idee”- “di già esistenti”, l’artista, se non la sua idea che, per esser tale, non esiste oggettivamente? Egli dà propriamente “forma e significato” alla propria immaginazione creativa che si riassume nei termini complessi di natura e di cultura. Certo, se poi s’intende -ma l’uomo di per sé non è portato a tanto sacrificio- che tutto è nel “Motore Primo”, allora è vero che l’artista non può ambire ad esser creatore, ma è altrettanto vero, in questi termini e la Chiesa dovrebbe alfine riconoscerlo, che anche il “brutto” e il “demonicaco” siano “motivati” nel Divino. (Non era scritto il tradimento di Giuda?) Non fosse che l’arte, ribadisce l’Istituzione, deve essere educativa .

Se il discorso sul sacro implica, per sua natura, una relazione stretta con talune teorie, e con quante posizioni sin qui esaminate, e venendo ad accennare qualcosa, ora, circa la produzione “profana” di Nena, non potrà farsi a meno di intuire che, quanto meno nella tensione a concretarsi in certa maniera, e pur in opere dichiaratamente “laiche”, possa tuttavia esistere una sorta di “sacralità” che, da una parte, essenzialmente si riconduce al rispetto della propria idea tradotta in immagine; dall’altra sottintende una “pietas” che, in quanto tale, non può non essere cristiana. Così, se ne deduce: pensiamo a Sogno, Ballerina (entrambe del 1969), Attesa I (1973), all’altra Attesa (1986), ad esempio, una forma tutta racchiusa all’interno d’una geometria a suo modo ellittica. La quale non solo serra le forme, le circoscrive e, in pari tempo, le pone in evidenza; ma pur indica una tensione alla perfezione. E se qui volesse farsi un po’ di filosofia “spicciola”, potrebbe anche asserirsi che mentre il cerchio è simbolo di perfezione (e cioè del divino), l’ellisse indica l’inadeguatezza comunque umana a raggiungere la divina perfezione. Allo stesso modo in cui lo scultore non nega, proprio per talune sue forme e soluzioni, un dialogo a distanza con Emilio Greco -artista cui è stato d’altra parte vicino. Propriamente si pensa all’Attesa (1986), opera la cui identità è tutta chiusa, con ciò divenendo pari all’intuizione di Greco in sculture di figure “accoccolate” tra il 1956 ed il ’68. Artista cui Nena anche allude per certa tipologia di titoli per i quali Greco citava unicamente il nome del ritrattato. E così il nostro, in forma di omaggio: Elisa (1968), ov’è unione tra materia scabra e levigata in una verticalità compositiva alludente ad un carattere; Milena (1972), tutta risolta nella geometria del volto e nell’identità accentata dei lineamenti; Marisa (1980), la cui soluzione iconica può condurre a rammentare quella di un antico “canopo”. Citazione formalmente più esplicita, ancora, nel docile plasticato di Gioia di vivere del 1974. Ove l’euritmia della figura sembrerebbe rinviare a quella d’una verticale serpentina: si salga dal piede alla testa e si constati come la forma si declini per un addentramento di possesso nello spazio. Così come un’eco colloquiale con i modi dello scultore siciliano -e, dicendo eco, s’intende che altre potranno essere le soluzioni- si avrà in Maternità (1975), opera che, tra le altre, ci sembra significativa pur anche per quell’aura “sacrale” di cui si faceva accenno.
Allo stesso modo, per le tre versioni di Lancio del giavellotto (tutte del 1985; due in ferro, una in bronzo), potrà ipotizzarsi, con la forte tensione espressa in eco al dinamismo del personaggio, una sorta di comprensione dell’opera –che fa unicamente perno sulla punta di un piede: di qui la dimensione dello sforzo e dell’energia- per linee e forme che idealmente si rintracciano per traiettoria spaziale. Si vedano il giavellotto, il braccio che sta per lanciarlo, la gamba che posa a terra. Condizione cui pur si unisce, dal ginocchio al piede, la gamba levata. Tutte linee e forme che, come detto, sottolineano ed amplificano, quasi, un’unica accezione di spazio. Così come il gusto della materia a sua volta contribuisce a sottolineare la tensione di muscoli e tendini, cui anche si faceva richiamo. Tutto, come non di rado, in chiave di sintesi.
Mentre sarà anche lecito che si faccia riferimento -e sono le tre versioni di Libero del 1968, del ’74 e dell’82- al cavallo che disarcionò Paolo sulla via di Damasco. Si tratta di tre opere in ferro (una delle quali, rampante, è nel giardino dello studio di Nena) che, in unione al più recente Cavallo e cavaliere (si pensa anche al Cavallo del 1974, a Verso la libertà dell’80, a Cavallino dell’84), parlano un linguaggio fuor di dubbio agro ove le forme, pur approssimandosi alla realtà, si fanno ampiamente suggestive e tutte tese, comunque, ad un equilibrio rintracciato in certa contiguità, in certa opposizione, in certa vocazione chiasmica, in certa, infine, geometria nuovamente racchiudente. Non può negarsi che il ferro sia materia particolarmente congeniale allo scultore. Il quale, con questa proprio, esempla una natura che, al fondo, dichiara una sorta di rinnovata ascendenza al dramma. Ed un’altrettanto rinnovata moderna sintesi delle chiavi formali; sintesi che risponde alle esigenze d’una figurazione che trae da vicende del trascorso e si vivifica e contamina con altrettante condizioni del quotidiano. Così, a proposito del Cavallo e cavaliere, si dirà che l’attuale non è più tempo di “monumenti equestri”, così come accadeva che se ne concepissero in epoche trascorse. Ragione per la quale dovrà credersi che l’opera di Alfiero Nena -collocata, come suggeriva Arthur Schopenhauer, su un basso piedistallo in maniera da poterne agevolmente “leggere” ogni particolare- dovrà ritenersi che sia né celebrativo di un evento, né di un personaggio. Quanto, piuttosto e meglio, esplicativo d’una tensione inventiva e d’una celebrazione, questo sì, d’una materia, d’una visione e d’un “mestiere”.
Ma, anche e di conseguenza, esempio d’uno studio sinteticamente formale ed emblematicamente proporzionale; d’una composizione, insomma che, come non di rado nelle realizzazioni dello scultore, risponde ad una necessità di racchiudere l’oggettività della forma nell’idealità d’una forma ulteriore, pur se non apertamente visibile. Se si porrà attenzione, infatti, a quella concezione ritmica, ci si avvedrà d’una corrispondenza e contiguità, anzi, di soluzioni che giunge a “chiudere” l’immagine in una “locuzione” esatta. Si veda, ad esempio, come Nena concepisca nello spazio -in accento che, per certi versi, potrà anche dirsi “chiasmico”- la logica delle braccia alzate del cavaliere e quella delle zampe in movimento del cavallo. A quella destra dell’animale corrispondendo in continuità, infatti, il braccio sinistro dell’uomo, e così via. Ciò conduce, come si avvertiva, ad una considerazione prioritariamente ritmico-compositiva che, nella presa d’atto quanto meno frontale dell’opera, per l’appunto richiama un’evidente e racchiudente soluzione “geometrica”.
Se, dunque, aspro –né può diversamente- è il linguaggio del ferro, diverso sarà quello della terracotta. Pensiamo, in specie con le due eccezioni delle altrettante versioni di Spartaco ha vinto (1974), opere in pari tempo testimonianti forza ed equilibrio compositivo cui, in realtà, pur si uniscono tra le altre Prigioniera (1974), Atleta (1985), Ribellione (1986), Olocausto II (1987), Mucca con vitellino nel paesaggio (1984): occasione per rendere eloquente una sorta di omaggio alla natura; pensiamo, si diceva, ad opere come Marta (1973), Ritratto di donna (1978), Donna con turbante (1979). Ma soprattutto si pensa a Francesca (1984) per la quale Nena sembra evocare testi scultorei d’anni venti e trenta. Risultando una figura arcuata, concepita a mezzo busto, cui si oppongono forme ulteriori (ed è sempre geometria, dunque) a renderla complessa, nonostante la sua dichiarata semplicità. Ciò a dire che lo scultore, pur facendo richiamo ad alcuni evidenti riferimenti simbolici e compositivi, si produce – si veda l’abito – in una sorta di raffinatissima delicatezza per via di minuti segni ad incidere la materia. Segni che pur sono nell’abito-peplo di Delphos (1989), figura che, a suo modo, nasce da una meditazione, traducendola in linguaggio più “mosso” (mentre maggiormente vòlto a certo sintetico arcaismo lo scultore ci appare ne l’Abbraccio, 1974), sulle antiche Kore.

Roma, aprile 2004 Domenico Guzzi